FRANCESCO ROSI RACCONTA TUTTO SE STESSO NEI SUOI DIARI

È nelle librerie, edito da La nave di Teseo, Francesco Rosi – Diari: Da Salvatore Giuliano a Carmen: il cinema della ragione (1961-1984), 19 €.

Pino Farinotti, sabato 24 dicembre 2022 - News

È nelle librerie, edito da La nave di Teseo, Francesco Rosi – Diari: Da Salvatore Giuliano a Carmen: il cinema della ragione (1961-1984) 230 pg. 19 €.

Trattasi di libro raro e prezioso per chi segue il cinema con attenzione, perché propone una visione “interna”, quella dello stesso regista che si racconta secondo la chiarezza e l’onestà, che erano i codici delle sue opere. A memoria, ricordo un testo (quasi) omologo, quello di Woody Allen, che però allargava tutto secondo la sua visione ironica e “battutistica”. Ma intendo partire da un copia-incolla di parte della prefazione di Giuseppe Tornatore.

Nessuno può raccontare meglio di lui: “Per quanti, come me, hanno amato i film di Francesco Rosi, se ne sono nutriti e hanno avuto il privilegio di essergli amico, leggere i suoi diari, trascritti e curati con ammirevole dedizione da Maria Procino, è un’esperienza emotiva e intellettiva difficile da esprimere. Gli appunti di lavoro, gli stralci di dialogo, la descrizione di luoghi e personaggi oggetto delle sue investigazioni, la previsione delle inquadrature e le attente riflessioni di Franco… ci restituiscono tutta la personalità del regista che con Alvatore Giuliano, Le mani sulla città e Il caso Mattei sovvertì le canoniche regole del cinema, ci riconsegnano l’intelligenza del suo sguardo curioso e impegnato, ci riportano all’inflessibilità del suo modo di essere e di ragionare”.

Francesco Rosi (1922-2015): di getto quel 1922. Quell’anno regala alla cultura e allo spettacolo italiano gente come Pasolini, Gassman, Fenoglio, Tognazzi. E se allarghi appena il tempo ecco Primo Levi (’19), Fellini (’20), Sordi (‘20), Manfredi (’21), Sciascia (’21), Mastroianni (’24), Fra gli altri. E poi Francesco Rosi, regista e autore decisamente importante. Nel panorama del cinema italiano, quando era grande e dettava legge, il suo nome ci sta. In una certa chiave ha dominato un genere, quello della cronaca raccontata attraverso la fiction drammatica. Rosi ci metteva del suo, ed era sempre un contributo che dava qualcosa di più, in chiave di rigore e di morale, e non era mai improprio. 

Diceva: “Cercare con un film la verità non significa voler scoprire gli autori di un crimine, ciò spetta ai giudici e poliziotti, i quali lo fanno a volte a prezzo della vita e a loro va il nostro pensiero riconoscente. Cercare con un film la verità significa collegare origini e cause degli avvenimenti narrati con gli effetti che ne sono conseguenza".
 

Qualche notizia. I contatti di Rosi giovane non sono banali. È aiuto regista di Visconti in La terra trema. In seguito lo sarà di Antonioni e Monicelli. Sceneggia Bellissima di Visconti e collabora con Emmer e Zampa. I primi titoli da regista sono La sfida (1958) e I magliari, già promettenti. Ma nel 1962 ecco Salvatore Giuliano, col quale fa il salto di qualità.

Apro un focus su questo titolo decisivo, che uso come modello rispetto agli altri approfonditi nel testo. Per ragioni di spazio, purtroppo. La sintesi. Secondo il suo stile Rosi usa Giuliano, il bandito che era quasi una leggenda, ucciso in carcere il 5 luglio del 1950, per estendere il racconto agli interessi economici e politici della mafia siciliana.

Nel libro Rosi racconta: “Fui tentato dall’affrontare un discorso sul cadavere di un giovane bandito diventato il nemico dello Stato italiano, morto in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine secondo la versione ufficiale, in verità ucciso a tradimento per opera della mafia e consegnato morto allo Stato nel quadro della collusione tra potere politico, quello delle istituzioni e quello della mafia.”

Questo metodo il regista lo estende a tutti i suoi film. Ma lo arricchisce con notizie giornaliere, contatti, riunioni, commenti di getto.

Altro focus-modello, di un film “diverso” ma fondamentale: Cristo si è fermato a Eboli. Quel momento italiano, siamo negli anni Trenta, presentava temi come il fascismo, la questione meridionale, il confino, l’attesa della guerra: tutti profondamente attrattivi per il regista.  C’è anche l’aspetto letterario.

Come Visconti, Rosi ha sempre espresso un rispetto sacrale del master letterario. Un modello esemplare e felice è l’incipit del romanzo di Carlo Levi, che il regista applica al film  quasi integralmente come voice over, ne esce una suggestione evocativa e funzionale. Del resto il magnifico testo di Levi lo meritava: “Sono passati molti anni, pieni di guerra e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro e non so davvero se e quando potrò mantenerla. Ma chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente, a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.”

Sintesi del film. Carlo Levi (Gian Maria Volonté), condannato al confino dalla dittatura fascista, arriva ad Aliano, un paesino sperduto della Lucania. All’inizio gli sembra di essere sepolto vivo, poi lentamente, comincia a interessarsi al posto e ad amare la gente: il goffo podestà, la sua fantesca-maga, il prete, il barone. Presterà anche la sua opera di medico. Alla fine gli viene permesso di tornare a casa: porterà in sé il ricordo di Eboli come esperienza indimenticabile.

Volonté è stato l’attore simbolo di Rosi, chiamato a dare corpo e volto a Mattei e a Lucky Luciano. Naturalmente il libro allarga il contenuto a-tutto-Rosi. Gli “apparati” contengono una nota biografia, la filmografia e la teatrografia. Sono presenti contributi critici di Valeri Caprara, Domenico De Gaetano e Titta Fiore.

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