Il nuovo lavoro del regista cinese è un film ibrido, insolitamente intenso, che mescola epoche e formati e complicandone il reciproco rapporto esistenziale. Ora al cinema.
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I figli del fiume giallo è un film sulla mancanza, a partire dal titolo. Ben prima del "fiume giallo" italiano, del valore poetico dell'Ash is Purest White internazionale, e prima ancora del valore letterale cinese - Jianghu Er Nv, ovvero "I figli dei fiumi e dei laghi". Un significato ulteriore confonde l'elemento spaziale con quello temporale, visto che "Jianghu" è un concetto che rimanda al codice d'onore di una criminalità antica, una controcultura di fratellanza. Più di tutto, però, questa parola evoca un tempo andato, degli ideali che si possono catturare solo in modo nostalgico, e dunque una frattura insanabile tra presente e passato; come nel brindisi celebrativo che apre il film, con Bin che alza il bicchiere all'idea di "lealtà e correttezza" per poi trascorrere il resto dei 135 minuti di film a eludere i medesimi valori.
Spazio e tempo entrano in gioco immediatamente con le due sequenze iniziali, in dialogo tra loro. Nella prima, del materiale documentaristico, girato in 4:3 con una telecamera digitale piena di grana "d'epoca", si aggira tra i volti dei passeggeri di un autobus per poi soffermarsi sugli occhi di un bambino. Nella seconda, ambientata in un 2001 diegetico, Qiao fa il suo ingresso nel locale dove Bin e la sua banda giocano a ricreare una mitologia eroico-criminale alimentata dai gangster movie di Hong Kong.
L'uso di quel prologo, che Jia stesso girò anni fa, parla del passato (e della sensibilità artistica) del regista quanto di quello del personaggio interpretato da Zhao Tao, sua musa e compagna. In esso c'è una transizione sociale, di classe e di genere, ma le due sequenze non sono legate direttamente: c'è qualcosa di straniante in mezzo, un'inquadratura aerea del complesso urbano, nitida e moderna, che separa il video dal 35mm e incarica un presente astratto e verticale di vegliare su due passati, uno vero e l'altro inventato. Con due sequenze, Jia Zhangke ha già posto le basi per un film ibrido, che non solo mescola epoche e formati, come spesso accade, ma ne complica il reciproco rapporto esistenziale sfuggendo alle semplici logiche binarie.
Lo stesso vale per l'assoluto centro gravitazionale del film, un folgorante minuto action, breve, senza parole, improvviso. Da outsider, Qiao si è fatta strada all'interno della banda, e dal sedile posteriore di una berlina scura brandisce un sigaro e indica la strada. Una voglia di ravioli, anzi forse no. Poi l'arrivo dei motociclisti di una gang rivale. Molto contribuisce a rendere la scena speciale: la fluidità del movimento di macchina tra i pugni che volano, la platealità del gesto con cui Qiao decide di intervenire per salvare Bin, mostrando la pistola e sparando due colpi come in un sacrificio cerimoniale.
Ma anche il modo in cui la sacralità proibita dell'arma (il cui uso vuol dire galera) viene suggerita nelle scene iniziali, in cui le mani sono rapide a coprire le pistole, sia durante una lite che durante una danza sulle note di YMCA, quando Bin la lascia cadere e Qiao la raccoglie discretamente. "Gli uomini armati tendono a morire per primi", dice Bin. Motivo visivo e tematico che contrasta con la fantasia impossibile della cultura popolare a cui la banda si rifà per inseguire l'ideale del Jianghu, quel cinema in cui le pistole rappresentano la voce lirica del melodramma (Chow Yun Fat appare in un frammento di Tragic Hero, così come la malinconica melodia di Sally Yeh, theme song di The Killer).
Di nuovo, la topografia interna del film è squarciata da questa scena, che si irradia incontrollabile verso il passato e verso il futuro. È al tempo stesso peccato originale e sacrificio finale, il momento che dà senso a tutto ciò che ha intorno e contemporaneamente ne prende per sé, assorbendo l'energia contemplativa del resto del film per rendere ogni colpo ancora più brutale.
Spazio e tempo saranno ancora in corto circuito cinque anni dopo, quando Qiao visita Fengjie nella regione delle Tre Gole, tornando alla diga di Still Life. Stesse inquadrature, ma diversi livelli dell'acqua. Davanti agli occhi di Qiao, un 2006 che non esiste più, letteralmente inondato dal cambiamento. Eppure quel 2006 vive nella sua e nella nostra memoria, immortalato da un altro film. Lo spazio invisibile che vive nel tempo sospeso di Jia Zhangke.