Presentato al Festival di Cannes, il film di Todd Haynes con Julianne Moore è ora al cinema.
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È il titolo italiano a suggerirci quanto La stanza delle meraviglie sia una riflessione sugli spazi: privati, istituzionali, interiori, artistici, urbanistici. L'originale Wonderstruck si riferisce ad un padiglione segreto del Museo di Storia Naturale di Manhattan, ritratto meticolosamente in un misterioso catalogo che Ben, il dodicenne protagonista, trova tra i cimeli della madre. Eppure la traduzione - comunque la stessa del graphic novel di Brian Selznick all'origine del film - innesca una suggestione domestica che dialoga con la prima parte del racconto, in cui il bambino è costretto a fare i conti con incubi inspiegabili, fantasmi che prendono forma, fulmini improvvisi.
Quindi si sposta a New York, seguendo le tracce di una mappa stampata nel suo cuore, dialogando intimamente con la storia di Rose, una ragazzina sordomuta che si muove, negli anni della Grande Crisi, tra teatri e musei alla ricerca di una madre che non sia solo un'immagine sulle riviste, approdando, infine, in una casa.
Gli spazi del passato, con l'estetica del muto riplasmata dal bianco e nero di Ed Lachman, sono quelli di un teatro che si prepara all'avvento del sonoro (una rivoluzione inaccessibile a Rose), un cinema che si rivela unico luogo nel quale poter dialogare con la madre diva dei silent film, un museo come presagio di un sistema di relazioni in cui i prodotti della Storia costituiscono elementi di una toccante tessitura sentimentale, un piccolo appartamento dove sbarca la barchetta prima collocata sul meteorite.
Un movimento circolare: una casa è il luogo da dove parte Ben per risalire alle origini di una mancanza e quello in cui termina parzialmente la ricerca affettiva di Rose. Grazie al montaggio parallelo curato da Affonso Gonçalves, scopriamo affinità, assonanze, simmetrie che si accumulano come pezzi di un puzzle risolto alla fine in un'altra commovente traiettoria circolare, pagine da segnare dentro un cripto-memoir.
Evitando spoiler, non si può però non citare quello che è lo spazio più emblematico, decisivo, emozionante del film. È il Museo del Queens - altro luogo determinante: l'unico pezzo della città a restare in parte illuminato durante il blackout del 1977 - dov'è custodito un immenso diorama che riproduce la New York del 1964, anno dell'Esposizione Universale. Uno spazio che non è solo espressione di un sublime artigianato, ma anche atto d'amore nei confronti di una città, un monumento agli affetti, l'illusione di poter controllare il tempo che sfugge inesorabile seminando ricordi.
E se il cinema di Todd Haynes è da sempre affascinato dalla possibilità di dominare il passato attivando strategie apparentemente mimetiche, non si può non collegare questo finale, rivolto verso l'ignoto spazio profondo del cielo sopra l'America, pieno di frammenti coerentemente dentro il diorama e che sovverte la realtà in nome dell'animazione, con l'antico mediometraggio Superstar: The Karen Carpenter Story, in cui il regista faceva interpretare il biopic dalle Barbie. Il gioco, insomma, si è raffinato con la maturità ma è difficile non riconoscere una precisa logica autoriale: il passato (qui addirittura due o tre, benché uno sia il presente del racconto) come dispositivo di una creatività chiamata ad esplorare spazi per svelare segreti dolcemente custoditi.