Il film di Eric Barbier è tratto dal volume più autobiografico dello scrittore e regista francese, una sorta di bilancio artistico ed esistenziale. Ora al cinema.
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Basterebbe l'ulteriore riscoperta di un grande autore come Romain Gary per apprezzare lo sforzo di La promessa dell'alba, tratto dal suo volume più autobiografico, una sorta di bilancio artistico ed esistenziale. Nella carriera di Gary non tutto è ammirevole, non tutto all'altezza, non ogni gesto letterario infallibile, eppure proprio in una certa spudoratezza mista a eleganza, proprio nel suo porsi come scrittore raffinato e quasi elitario con improvvisi grumi di vita vera, si nasconde la grandezza per cui è stato amato. L'avventura è cifra riconoscibile della sua esistenza e del suo fare. Non solo per le vicissitudini di una vita molto movimentata, che il film di Eric Barbier narra intensamente, ma anche per l'utilizzo di pseudonimi e le continue maschere che gli hanno permesso di "uscire" dal personaggio varie volte nel corso della sua carriera.
Certamente ne ha pochi con Gary cineasta, che pochi ricordano o conoscono, e che invece rappresenta un esempio incandescente di autobiografia mascherata da "bizzarro movie", come nel caso di Kill! del 1971, girato per aiutare la moglie Jean Seberg a uscire dalla depressione (inutilmente, poiché lei morì suicida poco dopo), e concentrato strano e astratto di noir, psichedelia e film d'autore. Anche Gary morirà suicida, a riprova che tutto quel che estetizziamo a posteriori nella vita degli artisti spesso è sordo dolore che l'arte riesce ben poco a lenire o riscattare.
Tornando a La promessa dell'alba, Barbier si concentra - come del resto il volume da cui è tratto - sulla figura della madre di Gary, interpretata da Charlotte Gainsbourg in un ruolo decisamente in controtendenza rispetto al suo solito type-casting. Non lontana da altre madri di differenti tradizioni culturali (non ultima la jewish mama gigantografica nel cielo di Manhattan di Edipo relitto di Woody Allen, decisamente più ironica di questa), Nina è ossessionata dal figlio, maschio. Per lui immagina un futuro radioso, che si avvererà più o meno puntualmente. Arte e successo storico, nella sua vita, devono intrecciarsi e trionfare, e così Romain è chiamato all'impresa di realizzare se stesso, una sorta di premio egotistico psicanaliticamente inseguito per compiacere la genitrice.
A Barbier le questioni edipiche interessano il giusto, perché la cosa forse più interessante del suo film - al netto di non poche fragilità dettate dall'impianto magniloquente e dalle scenografie invadenti - è il ricorso a moduli biografici avventurosi: la guerra, le conquiste, la scalata sociale, la battaglia letteraria, tutto entra in un vortice da romanzo d'appendice. Sarebbe bastata una consapevolezza più cinefila, un po' alla Chabrol, per raggiungere arie più terse e vette più apicali.
Certo, ci sono momenti di riuscito paradosso, come quando Nina - saputo che il figlio è l'unico del suo reggimento a non aver ottenuto la promozione militare sperata - lo loda pubblicamente proprio per la sua singolarità, volgendo al plauso un'umiliazione nettissima. Molto di La promessa dell'alba lo si deve allora alla Gainsbourg, che - almeno nella versione originale - riesce persino, lei francese, a parlare il francese degli immigrati dall'est Europa, sporcando la pronuncia e apparendo straniera. Chapeau.