A CHIARA, IL TERZO CHIARO SEGNALE DI UNA PRESENZA UNICA NEL PANORAMA DEL CINEMA ITALIANO

Torna in sala col suo terzo film Jonas Carpignano, regista 'immersivo' che riunisce in sé la libertà, il radicalismo da filmmaker newyorkese e una spiccata attenzione al reale, una fluidità rosselliniana. Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e dal 7 ottobre al cinema.

Giovanni Bogani, sabato 2 ottobre 2021 - Focus

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Swamy Rotolo (19 anni) 14 agosto 2004, Gioia Tauro (Italia) - Leone. Interpreta Chiara nel film di Jonas Carpignano A Chiara.

Non era facile girare un film in modo così naturale, così “vero”, su di un tema che tanti film e tante serie televisive hanno affrontato. Ma Jonas Carpignano c’è riuscito. Ha girato un film tutto addosso agli occhi, al volto, all’ostinazione e alla fragilità della sua protagonista. Adolescente in un Sud italiano che è tutti i Sud del mondo, ma insieme è assolutamente preciso, dettagliato: è la piana di Gioia Tauro, quell’angolo di mondo che Carpignano ha raccontato anche nei suoi due precedenti film, Mediterranea e A Ciambra.

E come a ricordarci che si tratta di tre fotografie dello stesso mondo, delle stesse strade, compaiono brevemente i protagonisti dei due film precedenti: Koudous Seihon, il migrante del Burkina Faso di Mediterranea, e Pio Amato, il ragazzo Rom protagonista di A Ciambra. Un po’ come accadeva – chissà se Carpignano lo ha visto – in Decalogo di Krzysztof Kieslowski, dove in ogni episodio compariva, marginalmente, chi era stato protagonista di un episodio precedente.

A Chiara, presentato a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs, distribuito negli Stati Uniti e in Francia, oltre che in Italia con Lucky Red, è il terzo segnale di una presenza unica nel panorama del cinema italiano. Nato a New York padre italiano, madre originaria delle Barbados, Carpignano riunisce in sé la libertà, il radicalismo da filmmaker newyorkese con un’attenzione al reale, una fluidità rosselliniana. Non è un caso se, per il film precedente, ha attirato l’attenzione di Martin Scorsese, che è entrato come produttore esecutivo nell’avventura di A Ciambra.

Carpignano è un regista “immersivo”. Con lui, e con la fotografia di Tim Curtin, si nuota dentro un mondo. Le prime immagini sono talmente ravvicinate da essere quasi incomprensibili, lo schermo diventa una tela astratta. Carpignano azzera la distanza dai suoi protagonisti: la telecamera respira insieme al personaggio. Il film racconta dal punto di vista di una persona costantemente vicina. Non esiste il punto di vista di Dio, non ci sono riprese dall’alto, non c’è la sensazione di un “narratore” che sa di più, e ti racconta una storia.

All’inizio, potrebbe quasi sembrare un film di Kechiche: chiacchiere, volti di adolescenti, il presente assoluto che si dipana. Ragazzine che si siedono su un muretto, che spettegolano, guardano Instagram. Chiara, la protagonista – si chiama Swamy Rotolo, metà della bellezza del film è sua – e le sue amiche. Tempo che scorre, fra accadimenti qualsiasi.

E poi una festa di compleanno, che Carpignano filma a lungo, tanto che ti chiedi perché: scene di ordinario benessere, capelli piastrati, vestiti e cellulari alla moda, bottiglie mezze vuote sui tavoli, voci che si alzano. E il Tuca tuca di Raffaella Carrà. Minuti e minuti, ma alla fine capisci il perché: quella sequenza infinita fa sedimentare, fa lievitare il senso della famiglia. E poi, quello strano momento: in cui il padre di Chiara non riesce a fare un brindisi, come incapace di trovare delle parole, o di trovare dentro di sé l’allegria necessaria. Non riesce ad alzarsi, a entrare in sintonia con l’euforia collettiva. Riesce solo a dire alla figlia, con una mestizia infinita, e sottovoce: “Tu sei la mia vita, sono orgoglioso di te”.

Un padre che, per intrecciare forte i legami fra reale e finzione, è il vero padre di Swamy. Così come le sorelle nel film sono le vere sorelle di Swamy, e la madre nel film è la vera madre. Solo la storia è una storia di finzione. Con un copione che Carpignano ha consegnato ai suoi attori giorno per giorno, senza che potessero sapere come la vicenda si sarebbe sviluppata. Portati, tutti, a vivere sulla propria pelle l’incertezza dei propri personaggi.

L’incertezza, l’insicurezza, i dubbi di Chiara. Che cerca di capire che cosa sta succedendo, che cerca di intuire da dettagli che cosa sia quel segreto che tutti sembrano conoscere, tranne lei. Una conoscenza da conquistare, centimetro dopo centimetro. E noi con lei. Una conoscenza che comporta, per Chiara, la fine dell’innocenza.

Potrebbe essere un thriller, il film di Carpignano, se non che lui sta bene attento a non farsi attirare verso nessuna scena “da film”. E non cerca neppure l’epica: tutto è a dimensione intima, microscopica, personale. Quando il racconto rischia di diventare “a tema”, come nel momento in cui compare un’assistente sociale, rischia anche di perdere la sua forza. Diviene più didascalico, rigido, astratto. Carpignano è un po’ come il padre, interpretato da Claudio Rotolo: non è tanto a suo agio con le parole. Ma quando sta addosso a Chiara, alla sua ostinazione, alla sua spavalderia, alla sua ingenuità, tutto riprende quota, tutto ridiventa vero e toccante.

In tutto questo, il quadro di fondo, quello della criminalità organizzata. Raccontata con uno sguardo che la spoglia da ogni “glamourizzazione”. La criminalità nella sua concretezza disadorna. Manovali che lavorano la cocaina come se fossero in un pastificio, o in un cantiere edile. Se nella serie Gomorra i criminali sembrano antiquari del Kitsch, qui sembrano piuttosto dei muratori che impastano calcina.

Ma non è lì, nel racconto sulla ‘Ndrangheta, il centro del film. Il centro del film è nello sguardo di Chiara, lo sguardo di Swamy Rotolo, di cui Carpignano dice “erano sei o sette anni che pensavo a lei per questo ruolo”. Viene da pensare a Boyhood di Richard Linklater, il film in cui il regista texano raccontava la vita di un ragazzo attraverso dodici anni, filmandolo in tempo reale. Qui non c’è questo passaggio di tempo: se non per la scena finale, filmata davvero alcuni mesi dopo il resto del film. Non c’è questo lavoro sul tempo, ma si capisce che – ancora una volta, come in A Ciambrac’è stato un grande lavoro nel tempo, per conquistare la fiducia di Swamy, per entrare a far parte della sua famiglia. Per diventare invisibile.

Un “esserci” quasi invisibile, uno sguardo da documentarista, quello di Carpignano. Che non rinuncia, però, a disegnare il suo racconto, e a strutturare il suo film lungo l’arco teso fra due compleanni. Quello all’inizio e quello della fine del film: in due mondi diversi. Due Italie che sembrano non conoscersi: e come spesso gli accade, Carpignano non ha bisogno di parole, per raccontare tutto questo.

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