NICOLANGELO GELORMINI: «MI SONO FORMATO CON SORRENTINO. DA LYNCH HO IMPARATO CHE I SOGNI SI AVVERANO»

Visionario, spericolato, esteta. Control freak. Il regista napoletano firma con Fortuna una storia che legge la cronaca nera attraverso una lente oscura e deformata, da favolaccia lynchiana. Dal 27 maggio al cinema.

Ilaria Ravarino, venerdì 21 maggio 2021 - Incontri

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Nicolangelo Gelormini . Regista del film Fortuna.

Visionario, spericolato, innamorato dell’inquadratura. Esteta. Control freak. Al cinema con la sua prima regia di un lungo, Fortuna (in sala dal 27 maggio) Nicolangelo Gelormini firma una storia da far piegare le braccia all’indietro – vagamente ispirata alla tragedia della piccola Fortuna Loffredo, precipitata nel 2014 dall’ottavo piano di una palazzina – raccontandola attraverso una lente oscura e deformata, da favolaccia lynchiana.
 

Napoletano classe 1978, una laurea in architettura e il diploma in regia al prestigioso Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, Gelormini sembra un alieno precipitato all’improvviso nel cinema italiano, ma lavora su palchi e set da quando ha vent’anni.

Gavetta con Paolo Sorrentino, a teatro con Luca Ronconi («Girai per lui degli intermezzi filmici per lo spettacolo Santa Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht, al Piccolo di Milano e al Teatro Maly di Mosca»), lavori su commissione tanti, ma di quelli importanti - un videoclip per David Lynch, un paio di bizzarri filmati per un marchio francese di scarpe (Roger Vivier: quello delle décolléte iconiche di Catherine Deneuve in Bella di giorno) girati con attrici del calibro di Christina Ricci e Isabelle Huppert.

Grandi, e legittime, le ambizioni per il futuro: «Ho tanti progetti in cantiere, tutti già scritti. Non vedo l’ora. Speriamo che l’arrivo di Fortuna in sala sia un modo per andare avanti. L’idea più forte? Girare un film in America. Vediamo se mi riesce».

Cosa c’entra lei con l’orrore di Parco Verde a Caivano?
Nulla. E credo che Fortuna mi sia stato proposto proprio per questo. Non essendo un fan del realismo, evidentemente ai produttori sono sembrato il regista giusto per tentare un’operazione non cronachistica, che cercasse una chiave diversa.

La famiglia della bambina, quella vera, come ha reagito al film?
Nessuna reazione. Ma ci siamo mossi fin da subito con la precisa volontà di prendere solo uno spunto dalla cronaca. Il titolo del film è un omaggio a lei, alla bambina.

Ha accettato subito?
No. All’inizio avevo molti dubbi, come tutti ero rimasto scioccato leggendo la storia sui giornali. Mi sono deciso quando ho capito cosa avrei dovuto mettere in scena. E cioè una storia universale. La storia di un desiderio tradito: quello dei bambini di essere amati dagli adulti. Una volta messo a fuoco, il tema del tradimento mi ha guidato anche nelle scelte artistiche.

Cioè?
A posteriori mi sono reso conto, per esempio, che nel film torna il tema del doppio, legato concettualmente al tradimento: spesso le inquadrature sono divise in due da un elemento architettonico. L’ho fatto per istinto, non l’ho deciso a priori. Mi potranno accusare di formalismo, ma mi assumo il rischio. Per me il cinema deve avere la sua estetica, e lo dico prima di tutto da spettatore.

Perché ha scelto anche di montare il film?
Non so se lo rifarei: il montaggio è una fase per cui serve avere una certa distanza dalla materia, e non è facile per un regista mantenere il giusto distacco. Ma io giro solo quello che monto, e sul set avevo già tutto in testa. Con un montatore esterno avrei dovuto rinunciare a tante cose. O combattere di più.

Mania di controllo?
Può confermarlo il mio analista. Ma non sono uno che si impone. Cerco di spiegarmi bene, di far entrare le persone nel mio universo creativo. E sono educato: non rompo le scatole alla gente di notte solo perché ho avuto un’idea.

Golino: come l’ha avvicinata?
La desideravo molto ma non la conoscevo. Avevamo un’amica in comune, così ho recuperato la sua mail e le ho scritto. Dopo qualche settimana, mentre ero in cucina, mi squilla il telefono. Era lei, che mi fa: «Non so come, né quando, ma questa cosa la voglio fare perche è cinema». Mi ha fatto sentire emozionato come un adolescente.

È stato assistente di Paolo Sorrentino: come è andata?
A vent’anni ero sul set de L’uomo in più. Fu un’esperienza formativa: a distanza di anni so di avere assorbito tanto. Cose che magari in quel momento non capivo.

E il videoclip per David Lynch, All The Things?
Ci sono arrivato per caso. Lynch aveva scritto un disco per la sua musa, Chrysta Bell, e un amico comune mi ha proposto di girare il videoclip….

Ha molti amici con amici importanti, lei?
Credo nelle sinergie. Quello stesso amico poi me lo ha anche presentato, David Lynch. Sono solo riuscito a chiedergli cosa pensasse del video. Ha detto «Molto bello», e non ho voluto sapere altro. Sono cresciuto con i suoi film, lo considero il mio padre artistico: se da Sorrentino ho imparato come su si sta sul set, da Lynch ho imparato che i sogni si avverano.

Ha sperimentato i formati, incluso il film interattivo per Roger Vivier: come immagina il futuro del cinema?
Le cose vanno chiamate con il loro nome. Il cinema è una cosa. La serialità tv o il film nato per la piattaforma è altro. Io sono disposto a tutto, come regista e come spettatore. Ma la mia ambizione è fare cinema. Sono convinto che il cinema resisterà. O almeno lo farà finché riusciremo a percepire la differenza tra quello e tutto il resto.  

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