Il film di Kathryn Bigelow e l'opera di Jean-Luc Godard, titoli diversi ma uniti da un legame profondo.
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Si va a chiudere il 2017 e intendo rilevare un contrappasso suggestivo, e importante, una connessione che rappresenta un richiamo... di mezzo secolo. Partendo da due titoli.
Detroit (guarda la video recensione) è un film di Kathryn Bigelow nelle sale e La Chinoise è un film di Jean-Luc Godard del 1967. Non potrebbero esistere titoli più diversi e distanti, per linguaggio, trama, estetica, insomma per "cinema", eppure sono uniti da un legame decisamente forte, la data, il 1967.
È l'anno della rivolta avvenuta, dal 23 al 27 luglio, nel ghetto nero di Detroit, sedata con le armi dalla polizia con morti, feriti e distruzione di case e negozi. Il film racconta di tre afroamericani, sequestrati e poi uccisi nel famigerato Motel Algiers, del tutto incolpevoli, del processo che ne seguì e dell'incredibile sentenza che assolse i responsabili di quelle morti. Quella vicenda violenta e drammatica era uno degli ultimi segnali a innescare il grande movimento del cosiddetto "sessantotto". In contemporanea a quel segnale, in Francia, il regista Godard, si esprimeva secondo filosofia, visione, simboli della propria cultura, e aveva previsto, in modo allarmante, ciò che era sul punto di accadere.
Sono semplicemente i codici del sessantotto. Poi i "cinque" non riusciranno a far niente di concreto, salvo l'inutile uccisione di un politico, e torneranno nei ranghi borghesi.
Detroit era dunque un punto d'arrivo e una congiunzione, e il percorso per arrivarci era del tutto "americano" intenso e drammatico, e l'approdo, inevitabile. La violenza e l'angoscia trasmesse dalla regia iperrealista della Bigelow prospettano con grande efficacia ciò che sta per accadere.
Detroit finisce per essere un collettore quasi esemplare, se il focus è sulla violenza, dei segnali che da anni arrivano dalla nazione.
Il primo segnale è l'aumento del benessere e del numero degli studenti universitari che vivono nei campus lontani dalla città e sviluppano una propria cultura giovanile. Il secondo è il Vietnam che induce il governo a reintrodurre la coscrizione obbligatoria per una guerra che non viene capita. I giovani si ribellano e disertano. Il terzo segnale è la richiesta di emancipazione dei neri, ormai inseriti nel sistema produttivo e nella cultura ma ancora emarginati e discriminati. Tutti questi fattori interagiscono ed esplodono in movimenti collettivi, anche violenti, che producono effetti politici e una vera e propria rivoluzione culturale e del costume.
Il percorso francese assumeva toni precisi e risolutivi quando il governo varò un progetto di razionalizzazione delle strutture scolastiche per adattarle alle necessità della produzione industriale. Significava privilegiare i settori tecnologici per aderire alle esigenze di alta qualificazione tecnica previste per i quadri dirigenziali, con un'automatica, drastica selezione del numero degli studenti. L'approvazione del piano provocò la reazione della masse studentesche e lo storico sciopero dell'università di Nanterre, che espresse il leader del movimento francese, Daniel Cohn-Bendit. Nel maggio del sessantotto Parigi consacrò la rivoluzione studentesca. Con la sua "Cinese" l'artista Jean-Luc Godard aveva dunque assunto per tempo i sentimenti, i disagi, la rivendicazione di una società, quella francese, storicamente capace di intuire, far proprie e poi esercitare le istanze popolari. Era successo in quell'ottantanove con risultati che hanno cambiato la storia. Mentre secondo una corrente di opinione ormai prevalente, il sessantotto si è immobilizzato ... sull'intenzione. Senza un destino.