UN AMERICANO A PARIGI, PIÙ CHE UN FILM UN'OPERA D'ARTE

Un film magnifico dispensatore di gioia di vivere, con Gene Kelly, il più grande uomo-spettacolo del cinema.

Pino Farinotti, lunedì 13 giugno 2016 - Focus

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È arrivato nella sale, restaurato, Un americano a Parigi. Parto da una mia personale gerarchia dei film, cinque titoli. Una classifica che ho elaborato anche come risposta di getto a chi me la chiedeva. Dunque discrezionale, ma certo con dei punti oggettivi di verità. Sarebbero dunque questi: La grande illusione 1936, di Renoir; Viale del tramonto 1951, di Wilder; Il posto delle fragole, 1957, di Bergman; l'italiano Ossessione 1942, Visconti. E poi Un americano a Parigi, 1951, di Minnelli. Darei volentieri le motivazioni, ma non c'è spazio. Quando mi si domanda: "ma come, metti un musical e non un Welles o un Hitchcock?" Rispondo che la prima opzione del cinema è l'evasione e Un americano a Parigi è un magnifico dispensatore di gioia di vivere.

Con quel film ho un rapporto... personale. George Gershwin compose il poema sinfonico nel 1928 e la prima si tenne alla Carnagie Hall di New York il 13 dicembre di quell'anno. Nel 1951 la Metro acquisì i diritti e produsse il film. Il risultato fu il capolavoro, anzi, il modello assoluto che conosciamo.
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Modello significa che rappresenta, al più alto livello, l'unica forma d'arte del tutto americana, che è il musical. Il produttore Arthur Freed investì moltissimo, assunse il meglio del meglio; alla regia il principe del musical Minnelli, per la sceneggiatura Lerner, per i costumi Plunkett, per la scenografia Gibbons, e poi gli attori: Gene Kelly, Oscar Levant, Georges Guétary, fra gli altri. Inoltre fece venire dalla Francia alcuni dei migliori esperti dell'impressionismo, per applicarli a certe pitture animate di Renoir e Toulouse-Lautrec. Soprattutto fece venire da Parigi Leslie Caron. E poi, naturalmente, le musiche di Gershwin, il più grande compositore americano, capace di coniugare la musica popolare con il classico più avanzato.

In foto una scena del film.
In foto una scena del film.
In foto una scena del film.

Il film vinse sei Oscar: "migliori" film, sceneggiatura, scenografia, fotografia, costumi, colonna sonora. Ed ecco cosa intendo per "personale". Una volta, primi Anni Novanta, venne a cena da noi, a Liscia di Vacca un'amica di mia moglie Daniela che aveva una boutique a Porto Rafael. E si portò... Leslie Caron, che a Porto Rafael possedeva una delle maisonettes. L'artista francese era una delle scopritrici, della prima ora, della Costa smeralda. Sapevo tanto di lei, naturalmente. Era ancora bella Leslie, in forma e competitiva, e io ero felice. Nella raccolta dei cd di casa avevamo Un americano a Parigi. Mia moglie lo inserì. Arrivati al capitolo 14 -come posso non ricordarlo- la canzone era "Love is here to stay", e racconta il ballo rapinoso di Kelly e Caron in riva alla Senna.

La danzatrice venne verso di me, mi prese la mano e mi condusse dove c'era spazio. L'iniziativa era stata di mia moglie. "Così potrai dire di essere stato Gene Kelly". Così, per un minuto, lo fui.
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E quando Daniela chiese a Caron se Kelly ballava meglio di me, lei rispose "seulement un petit peu". Che bel ricordo. Al di là del fatto personale, la Caron mi raccontò la sua vicenda con Un americano a Parigi. Aveva vent'anni e faceva parte del Ballet des Shamps Elysées di Roland Petit. Era impegnata nella performance di "Le jeune homme et la mort", dello stesso Petit, quando Gene Kelly la vide, andò da lei in camerino e le disse che se la sarebbe portata a Hollywood. Kelly voleva una ballerina che sapesse andare oltre il tip tap. Leslie era danzatrice completa, al balletto musicale si sarebbe adattata all'istante. Hollywood la ricevette secondo l'attitudine americana, sempre pronta a accogliere e a inchinarsi alla cultura europea, quando c'è la grande qualità. Kelly, sul set, era implacabile, con una forza fisica impressionante. La sera Leslie si contava i lividi e la mattina al trucco avevano sempre quel problema da risolvere. L'artista francese fece dunque l'exploit che sappiamo e Hollywood l'adottò per altri film.

Il regista Minnelli: non si limitò al "poema americano" di Gershwin, integrò la spartitura con un brano più complesso, il terzo movimento del concerto in F. Ho detto sopra "opera d'arte", anche per questa applicazione di "sincretismo". Infine Gene Kelly. Dico che per somma e completezza di attitudini; di ballerino, attore, coreografo, regista e cantante, Kelly è probabilmente il più grande uomo-spettacolo del cinema. In una serata che fece epoca i "tre tenori" lo onorarono cantando "Singin in the Rain", al Madison Square Garden. Era il gennaio del 1996. Kelly, molto malato, paralizzato, era in prima fila. Durante l'ovazione della sala, mortalmente sforzandosi, si alzò in piedi sostenuto da un infermiere. Morì pochi giorni dopo. Non poteva rinunciare al pubblico. E all'applauso. A costo della vita.

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