Attraverso la forma del road movie, il film mescola le idee di una grande cineasta europea con quelle di un artista contemporaneo ricco e affermato. Al cinema.
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Un film sulla vecchiaia. E un film sulla storia del cinema. Ci sembra questa la lettura più propria di Visages, Villages di Agnès Varda e JR. Non c'è dubbio che i due autori riescono ad aprire la loro storia a innumerevoli suggestioni: la fotografia, l'arte contemporanea, il rapporto tra gesto estetico e cittadini, lo studio del paesaggio, l'incontro tra il cinema di ieri e la creatività di oggi, e così via. Eppure, a convincere e a sottrarre il film al pericolo del documentario per pochi è proprio la commossa riflessione sul tempo.
Contemporaneamente, però, un'altra migrazione, culturalmente più corroborante, avveniva: il cinema - dopo aver tanto lottato per la propria legittimazione artistica - è entrato nei musei, nelle mostre, nell'arte, nelle installazioni-video, nella produzione di tanti autori, dando vita a una sorta di "post-cinema" diffuso e suggestivo. È a questa seconda anima che Visages, Villages guarda, mescolando le idee di una grande cineasta europea (forse meno conosciuta dei suoi colleghi maschi, e non sarà stata forse anche questa una storia di maschilismo?) con quelle di un artista contemporaneo ricco e affermato. Il percorso del film sembra essere l'esatto contrario di quello proposto da un'altra importante riflessione sull'arte di oggi, The Square (guarda la video recensione). In quel caso, la satira nei confronti del sistema delle mostre contemporanee si basa principalmente sul fatto che la comunicazione artistica è elitaria e ipocrita, pur essendo ancora in grado - se interrogata nel modo giusto - di spiegare il presente.
In Visages, Villages la forma del road movie permette di portare l'arte di JR fuori dai musei (come è quasi sempre stata la sua produzione) e di interagire con una Francia profonda che nulla ha a che fare con i consumi eruditi e raffinati delle classi istruite urbane. E l'incontro, tra alti e bassi, riesce. Riesce grazie al fatto che ruota intorno alle espressioni ai volti, all'identità delle persone, e alla grandezza delle immagini. Ed ecco che rientra il cinema, con il suo linguaggio e la sua storia. La prima grande rivoluzione culturale e percettiva del Novecento è stata conquistata grazie al primo piano, figura stilistica in grado di suscitare le riflessioni di teorici e filosofi (da Béla Balasz a Gilles Deleuze) per come ha permesso di trovare un paesaggio in un volto, e tutto l'atlante delle emozioni umane in una ruga o in uno sguardo. Tornando al ritratto fotografico ma esagerandone le forme, è come se Varda e JR stessero ricreando lo sperdimento emotivo e sentimentale del primo piano: un linguaggio e un gesto artistico perfettamente comprensibile da tutti, senza faticose astrazioni autoriali da cui il destinatario si sente spesso distante ed estraneo.
Ecco perché il pellegrinaggio in cerca di Godard lascia l'amaro in bocca: la nouvelle vague è un ricordo lontano, e chi è ancora vivo dei suoi protagonisti sembra depresso e ostile. Meglio pensare al futuro, meglio reinventare nuove piccole onde in giro per l'Europa e il mondo, mescolando generi e formati, finzione e realtà, aprendosi al nuovo anche quando (anzi, soprattutto perché) non si ha più un futuro.