VORACE, AMBIZIOSO, MULTIFORME, CALEIDOSCOPICO. RHEINGOLD RACCONTA COSE TANTO INCREDIBILI DA ESSERE VERE

Minoranze etniche, persecuzioni religiose, i sogni di una vita migliore. Narrati con il tono leggero, col motore sempre a pieni giri dello stile di Fatih Akin. Al cinema.

Giovanni Bogani, sabato 29 luglio 2023 - Focus
Emilio Sakraya . Interpreta Giwar Hajabi aka Xatar nel film di Fatih Akin Rheingold.

È una storia di rifugiati curdi? È una storia di crimine? È una storia alla Tarantino, alla Guy Ritchie? Persino alla Scorsese? È la storia vera del rapper tedesco Xatar? È tutte queste cose insieme, Rheingold di Fatih Akin. È una storia vera che sembra finta, raccontata con un ritmo esplosivo, violento. Che paradossalmente, sembra più vera quando rallenta, quando si placa un po’.

Tratto dalla autobiografia del rapper Xatar “All or Nothing: We Say the World Belongs to You”, Rheingold è vorace, ambizioso, multiforme, caleidoscopico, “wagneriano” in questo senso – e forse, il titolo non è così fuorviante. È un po’ di tutto, come volevano essere le opere di Wagner. È pieno di spunti cinematografici,  di continue toccate e fughe dai generi.

C’è un po’ di tutto, dentro il film di Fatih Akin, cinquantenne tedesco di origine turca, premiato a Berlino con l’Orso d’oro per La sposa turca nel 2004, per la migliore sceneggiatura a Cannes per The Edge of Heaven e sempre a Cannes con il premio per la migliore interpretazione femminile per Oltre la notte (guarda la video recensione). Akin ha spesso raccontato le minoranze in Europa, le tensioni razziali e religiose, le ferite della storia, ma sempre con irresistibile leggerezza pop. Anche in Rheingold – riferimento ovvio all’ ‘Oro del Reno’, l’opera di Wagner, la prima della tetralogia dell’ ‘Anello del Nibelungo’, in cui l’oro si fa metafora: mentre qui è reale, un McGuffin di oro grande che invade i pensieri – Akin mescola registri, toni, ritmi diversi.

Il sipario si apre in Siria, nel 2010: il protagonista – Giwar Hajabi, ovvero Xatar, interpretato da Emilio Sakraya – è sbattuto in una prigione siriana, torturato affinché riveli dove ha nascosto l’oro…  E via, una serie di flashback che fa tanto Quei bravi ragazzi: stacco sull’inizio della rivoluzione iraniana del 1979, quella che portò al potere Khomeini. La violenza stavolta è l’irruzione di un gruppo di fondamentalisti nella sala da concerto dove suo padre, compassato, in tenue de soirée, sta dirigendo un’orchestra. Spari, caos, la fine di un’armonia.

E poi, è un ottovolante di luoghi e di tempi. L’avvento di Khomeini, la guerra Iran/Iraq: la madre che si rifugia in una grotta sotto le bombe e dà alla luce il figlio, fra i pipistrelli che impazzano. “Ti chiamerai Giwar”, dice. “Nato dalla sofferenza”. E poi via a Parigi, e a Bonn, dove la famiglia di quei curdi senza patria né speranze deve iniziare da capo una vita. Il giovane Giwar farà presto a lasciarsi coinvolgere in piccoli crimini. Verrà picchiato e umiliato: la sua decisione di vendicarsi lo porta a costruirsi un fisico minaccioso. Stacco: i Giwar adolescenti scompaiono. Ne emerge un Giwar muscoloso, col capo rasato, i baffi, lo sguardo da duro.

È andato a imparare la durezza del vivere a modo suo. Da uno che gli spiega: “Quando tu lo hai buttato a terra, vagli addosso e picchialo finché non lo finisci”. Giwar prende alla lettera i consigli, si prende la sua rivincita su una gang locale in una scena incredibilmente violenta. Che gli vale il soprannome “Xatar”, una parola curda che significa “pericoloso”.

Non siamo neanche a metà film. E raccontare tutto questo in poche manciate di minuti impone un prezzo: non si può andare tanto per il sottile. Più che sottili pennellate, sono colpi di spatola, sono graffiti fatti con lo spray quelli di Akin.  
 

Da quando emerge Giwar adulto, si sviluppa il tema vero del film, l’interesse di Giwar per la musica, ereditato dal padre: ma non sarà musica classica, bensì rap. L’arte resiste, o persino si nutre della reclusione, della sconfitta: ci sono momenti piuttosto toccanti con Giwar che, in cella, canta rap sottovoce, sotto una coperta del penitenziario: sta registrando le sue prime tracce. È la creazione che si fa nel buio, nella solitudine, nella sconfitta. C’è molto di toccante, in quei momenti.

 

Poi, proprio per quella decisione di far nascere un’etichetta discografica, e con i modi almeno bizzarri che Giwar sceglie per finanziarla, ecco che ci troviamo alla casella di partenza del film, a quella cella in Siria. Una costruzione molto elaborata nei vari piani temporali e spaziali, una risoluzione di ogni scena in modo molto colorato, vivido e fumettistico. Alla fine si compone un film che è un romanzo di formazione, un thriller, e anche un biopic di un rapper reale, adesso divenuto una star. 

Emilio Sakraya fa di Giwar Hajabi un bad boy intelligente, attraente, accattivante, ambizioso, vulnerabile. Akin si accorge di quanto sia prezioso, e da quando appare sullo schermo dà l’impressione di lasciargli carta bianca, di affidarsi molto all’istinto di Sakraya.

Due secondi per parlare della colonna sonora: l’hip hop degli anni ’90 dà la necessaria emozione, l’anima a quello che vediamo sullo schermo.

In definitiva, c’è la stessa euforia, la stessa intenerita allegria che sentiamo, spesso, scorrere nei film di Martin Scorsese verso i suoi criminali pasticcioni, violenti, pericolosi e infantili. Ed è la storia di una vita che sembra inglobarne tante, la storia di un criminale/matrjoska che ha dentro di sé un artista, un figlio, uno sconfitto, un innamorato maldestro, uno sfigato, un Tony Montana e un pasticcione. Un film bizzarro, che racconta cose tanto incredibili da essere vere.

Insomma: forse non è il ritorno ai livelli dei film di Akin premiati a Berlino e a Cannes, ma è un bel modo di scaldare i motori per il progetto di una serie sulla leggenda del cinema Marlene Dietrich, che riunirà Akin con Diane Kruger dopo Oltre la notte (guarda la video recensione), che le fece vincere il premio come miglior attrice al festival di Cannes.

Akin mescola tragedia e commedia, gangster movie e romanzo di formazione, in un film non certo profondissimo, ma al quale il protagonista Emilio Sakraya dà peso, forza, emotività, profondità. E il film racconta, senza averne troppo l’aria, le minoranze etniche, le persecuzioni religiose, i sogni di una vita migliore. Ma con il tono leggero, col motore sempre a pieni giri dello stile di Fatih Akin.

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