passeri
(Þrestir)
UN’ADOLESCENZA ISLANDESE
di Riccardo Basso
Pubblicato il 1 marzo 2017 su Cineclandestino.it

La carriera di Rúnar Rúnarsson, regista quarantenne islandese, ha avuto inizio con tre cortometraggi premiati in diverse manifestazioni cinematografiche internazionali con numerosi riconoscimenti. Passeri (Þrestir) è il suo secondo lungometraggio dopo Vulcano (2011) e sviluppa la storia di uno di questi corti; girato nel 2015, uscirà nelle sale italiane il 2 marzo 2017. Con questo delicato film Rúnarsson prosegue il proprio percorso personale come filmmaker, focalizzandosi su tematiche e scelte artistiche che potrebbero renderlo un regista dalla voce definita nello scenario europeo e, perché no, mondiale. Passeri è la storia di un’adolescenza difficile come molte delle adolescenze solitamente raccontate sul grande schermo. Il protagonista è Ari, 16enne che vive a Reykjavík con la madre; nella scena d’apertura scopriamo che pratica con abilità canto corale. Quando la madre, divorziata e ora compagna di un avventuroso danese, parte per l’Uganda, Ari si trova costretto a trasferirsi nel paesino nell’ovest dove vivono il padre e l’affettuosa nonna.

Il conflitto che fa da colonna portante a tutto il film è chiaro sin da quando vediamo l’aereo di Ari volare sopra i paesaggi più naturali e meno urbani dell’Islanda: è il conflitto tra la vita in città e quella nei piccoli paesi, in questo caso una cittadina fondata sulla pesca e fedele alle sue semplici abitudini. L’atmosfera del paesino è l’elemento centrale di Passeri: con occhio clinico, Rúnarsson descrive un quadretto a tinte fredde perfettamente “islandese”, tutto piccole casette, mare e pesce. In una scena addirittura un amico di Ari esibisce un piccolo cucciolo di foca che tiene nel giardino di casa… Il nuovo ambiente in cui si trova Ari sembra calmo e incontaminato dal mondo, ma contiene anche un aspetto deteriore, ovvero una nota di squallore e rozzezza ben espressa dalle tristi bevute di compagnia a cui partecipa il padre di Ari, o anche dal deprimente, sebbene a suo modo appagante, lavoro a cui si deve dedicare Ari e che mal si addice al suo spirito sensibile; in fondo la sua vera passione sarebbe il canto raffinato da coro, antitetico alle dure occupazioni degli uomini del paese. Insieme al conflitto con la sua nuova sistemazione, Ari deve affrontare anche quello con suo padre, che dimostra di essere troppo diverso dal figlio per poterlo capire.

Il film si sviluppa per buona parte secondo i canoni del film di formazione giovanile: un’adolescente insoddisfatto affronta una serie di situazioni in cui si trova a disagio, generalmente a causa degli adulti o della propria inadeguatezza, e per questo la sua insoddisfazione cresce, sebbene alternata a momenti di divertimento o gioia, generalmente grazie a dei coetanei amichevoli o (soprattutto) ad una persona di cui si invaghisce, nel caso del film l’amica d’infanzia Lára. Per buona parte del lungometraggio le tematiche e il modo in cui sono svolte sono molto convenzionali. Di conseguenza, per chi ritiene di aver già visto un numero sufficiente di film sui problemi dell’adolescenza, Passeri potrebbe risultare una visione faticosa; detto questo, il film guadagna enormemente dalla sua peculiare ambientazione, che rende a loro modo originali anche tematiche universali come lo scontro tra generazioni o l’ambiguità dei primi amori. Proprio riguardo lo scontro generazionale, il film traccia un parallelo tra Ari, insofferente nei confronti del padre, e il padre stesso: entrambi sono degli immaturi, e soffocano la propria insoddisfazione attraverso il divertimento con gli amici.

“Un attore rivelazione e un paesaggio meraviglioso e terribile, per un coming of age che trova la propria identità nelmomento dell’affondo più duro.”

Così, mentre Ari esce con i suoi coetanei, cercando di divertirsi con un po’ di alcol e un po’ di droga, il padre fa lo stesso, con la differenza che i suoi ritrovi, frequentati da frustrati quaranta-cinquantenni, lasciano una sensazione di vero squallore, sottolineata con amorevole ma severa preoccupazione dalla nonna di Ari, personaggio che rappresenta la bussola morale del film e più in generale esemplifica la serenità e la saggezza che sembrano mancare a suo figlio e suo nipote. Padre e figlio sono allontanati l’uno dall’altro anche dal mito del “vero uomo”, rude e forte, mito che pare inevitabile in una comunità ristretta come quella del film e della quale il padre si fa modello, mentre Ari ne è molto lontano, dato che cerca la definizione di sé stesso più nel talento artistico che in esibizioni di machismo come la caccia. Gran parte del film è girata da Rúnarsson con distaccato realismo; questo intento è reso evidente, per esempio, dalle scene in cui si inquadra l’ambiente centrale da dietro una porta aperta o dietro un altro ostacolo visivo, come a voler mantenere una certa distanza rispetto al luogo nel quale i personaggi si incontrano. Il ritmo è molto lento, come probabilmente appare la vita in paese ad Ari, e accompagnato dall’eterea colonna sonora di Kjartan Sveinsson, noto come tastierista dei Sigur Rós.

L’elemento che influenza maggiormente il film, però, è quello atmosferico: Passeri è ambientato durante l’estate islandese, nel corso della quale la luce del sole non scompare quasi mai. Una soffusa luce è costante per tutta la durata del film, e gli dona una nota di a-temporalità quasi alienante; è questa l’ideale rappresentazione visiva dello stato d’animo di Ari. La direttrice della fotografia Sophia Olsson (collaboratrice di Rúnarsson insieme al montatore Jacob Schulsinger dai tempi in cui i tre frequentarono l’accademia cinematografica in Danimarca) ha girato il film con pellicola 16mm (adottata anche in un altro film uscito quest’anno, Jackie di Pablo Larrain), la cui grana ammorbidisce l’immagine e restituisce la peculiare e tenue atmosfera dell’estate islandese. Questa scelta, inusuale nell’era del digitale, tradisce il primato che il film assegna alla parte visiva della narrazione, la quale ne esce nettamente vincitrice in confronto alla parte di puro storytelling. Ciò nonostante, alla trama va riconosciuto il grande merito di saper sorprendere lo spettatore: nel terzo atto del film, dopo che fino a quel momento erano stati sviluppati in maniera abbastanza convenzionale molti topoi del tipico film di formazione adolescenziale, avvengono un paio di episodi piuttosto scioccanti, o perlomeno inaspettati, entrambi peraltro legati al tema del sesso. Senza voyeurismi nel mostrare questi episodi, l’imparziale camera di Rúnarsson carica l’ultima parte del film di una più profonda inquietudine che lascia spazio ad un finale volutamente vago. Nelle interviste per promuovere film, il regista ha sostenuto di essere interessato alle zone grigie dell’esistenza, e non a facili morali; tutti i 99 minuti di Passeri sono coerenti con questa poetica. Lo spettatore potrebbe chiedersi che ruolo abbiano i volatili del titolo all’interno del film, e potrebbe rimanere sorpreso nello scoprire che essi sono di fatto assenti. Rúnarsson ha spiegato che Passeri era semplicemente il working title dell’opera, ma che successivamente ha preferito mantenerlo in quanto rappresentava in qualche modo la fragilità del protagonista, e anche perché, fatta qualche ricerca, ha scoperto che i passeri nell’iconografia biblica sono legati all’innocenza e alla transizione. Effettivamente, se qualcuno dovesse riassumere i temi del film, “la transizione ad una nuova vita” e “la perdita dell’innocenza” sarebbero le formule più adatte.

Rúnar Rúnarsson
Intervista

Pubblicata su Cineuropa.org

Rúnar Rúnarsson è pluripremiato sceneggiatore, regista e produttore islandese, nato a Reykjavik nel 1977 e formatosi alla National Film School of Denmark. Ha presentato i propri film nei maggiori festival internazionali, tra i quali il Festival di Cannes. Presentato al 40° Toronto Film Festival e candidato per l’Islanda agli Oscar 2017 come Miglior Film Straniero, Passeri – da giovedì 2 marzo 2017 con la distribuzione di Lab 80 - è il suo terzo film, dopo Volcano (2011), non distribuito in Italia.

Quali tematiche vuole affrontare in Sparrows?
Ci sono troppi film costruiti per raccontare una cosa sola e a volte pretendono anche di custodire la verità, come se fossero storie della Bibbia. Questo non mi piace e voglio che i miei film siano più ampi. Sparrows parla del passaggio all’età adulta di un ragazzo che attraversa un periodo di transizione, ma il film parla anche della relazione padre-figlio, d’integrazione, del ritorno alle origini, di mascolinità, amore, perdita e perdono. Amo lavorare con molti elementi, perché la vita è più complessa di una sola morale in 90 minuti. La vita non è bianca o nera, è grigia, con diverse sfumature. È la realtà e voglio che sia percepita dal pubblico. Si tratta di un film, quindi deve essere visivo e narrativo. Dato che ho capito che lo spettatore ama identificare a quale genere preciso appartiene il film, io e il mio staff definiamo il nostro lavoro come realismo poetico. Perché è importante avere bellezza ed estetica.

Senza essere molto cupo, l’universo di Sparrows è molto duro. È la sua visione della vita?
Bisogna rendersi conto che ci sono degli ostacoli da superare nel corso della vita, che è inevitabile dover affrontare piccoli e grandi drammi. Ma bisogna evidenziare le cose belle. E se nel mio film ci sono uno o due eventi che possono essere scioccanti, la mia intenzione non è quella di impressionare gratuitamente, ma di far provare la bellezza che ne segue. È un errore lasciar pensare allo spettatore che tutto è bello e luminoso come succede nelle produzioni hollywoodiane o che la vita è un inferno senza speranze come in alcuni film d’essai. Nessuna delle due opzioni è corretta, perché nella vita, quando si cade, ci si rialza e il sole splende di nuovo. C’è sempre speranza, non bisogna mai perderla.

Usa un metodo particolare per le riprese?
Ho incontrato la maggior parte dei miei collaboratori, in particolare il mio tecnico del montaggio e il direttore della fotografia, alla scuola di cinema in Danimarca. Abbiamo lavorato su molti progetti e insieme abbiamo creato il nostro stile, soprattutto nel ritmo delle scene che corrisponde al realismo della nostra visione. Non tagliamo e spesso usiamo quello che viene filmato dopo la ripresa. Anche se non ho potuto usare una 35 mm, Sparrows è girato in Super 16, perché non c’è niente di meglio della pellicola in termini di delicatezza. Viviamo in un mondo di schermi ad alta definizione che ci bombardano di contrasti orrendi e quando guardiamo un film girato su pellicola in buone condizioni, troviamo il vero cinema. Senza contare che è meno dispendioso girare in Super 16 rispetto al digitale!

Come vede il proseguimento della sua carriera? Si sente legato indissolubilmente all’Islanda?
L’Islanda è un piccolo paese e ho sempre coprodotto i miei film con la Danimarca, dove ho vissuto otto anni, e sono stato sostenuto dai fondi dei due paesi. Forse il mio prossimo film sarà ambientato in Danimarca, sarebbe una tappa logica. Mi trovo bene anche con la lingua inglese, ma non lavorerò mai in un posto dove non conosco nulla. Devo vivere e respirare l’atmosfera, testare l’ambiente per poterlo ritrarre: fa parte del mio processo di scrittura. Per me è importante lavorare con persone di cui mi fido, avere tutta la libertà artistica possibile e il controllo sul processo di realizzazione dei miei film. Perché le decisioni che sembrano questioni pratiche sono in realtà scelte artistiche.

film e sceneggiature

VOLCANO, 2011

ANNA, 2009

2 BIRDS, 2008

THE LAST FARM, 2004

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