Aguirre, furore di Dio

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Un film di Werner Herzog. Con Klaus Kinski, Helena Rojo Del Negro, Ruy Guerra, Peter Berling, Helena Rojo.
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Titolo originale Aguirre, der Zorn Gottes. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 93 min. - Germania, Messico, Perù 1972. MYMONETRO Aguirre, furore di Dio * * * 1/2 - valutazione media: 3,53 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Personalità di un luogotenente inferocito. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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sabato 2 giugno 2018

AGUIRRE, FURORE DI DIO (RDT, 1972) diretto da WERNER HERZOG. Interpretato da KLAUS KINSKI, HELENA ROJO, DEL NEGRO, RUY GUERRA, PETER BERLING, CECILIA RIVERA, ALEJANDRO REPULLES
1560, Perù: una spericolata spedizione spagnola di conquistadores si addentra nell’inestricabile giungla amazzonica per ricercare il leggendario El Dorado. Il sanguinario e spregiudicato luogotenente Lope de Aguirre, con un clamoroso colpo di mano inaspettato, prende il possesso dell’impresa conducendola alla perdizione e alla sconfitta completa. Il primo eccezionale esito del sodalizio artistico fra Kinski e Herzog che rivelò fuori dalle due Germanie di allora il talento visionario del regista tedesco. Spesso, al DVD, è abbinato il documentario La ballata del piccolo soldato, uno dei più toccanti mai realizzati da Herzog, il quale fu però oggetto di polemiche all’epoca della sua uscita per quanto trattava: la guerra in Nicaragua condotta da bambini-soldato misquitos contro i sandinisti. All’epoca delle riprese del film in questione, Herzog era un regista nemmeno trentenne dalle idee fortemente limpide, cui aveva già dato forma nelle pellicole precedenti, ma che finalmente riesce a collezionare in maniera compiuta in un peplum di rara potenza visiva e compattezza concettuale. Pura meraviglia: l’opera s’apre catapultando lo spettatore in uno degli inizi più celebri e magnifici della storia del cinema, con una sequenza che mostra la natura intenta a combattere contro sé stessa: un torrente nel pieno della sua furia, vette maestose ricoperte dalle nubi. E poi il profilo d’una montagna inondata di foschia ed una sterminata fila di uomini che scende faticosamente i sentieri rocciosi come ad animare la nuda pietra di un’aspra natura. È il Machu Pichu, una delle più incredibili location che la Terra possa offrire, ma il taglio della ripresa di Herzog ce ne consegna una minima porzione, così da non impoverire con un’ampia inquadratura descrittiva la potenza onirica dell’immagine di un paesaggio che sembra prender vita. E tutto ciò solo nei primi tre minuti di proiezione. Poi Kinski compare con sguardo cupo nei panni del protagonista Lope de Aguirre sancendo lapidario, con occhi rivolti all’impetuoso Rio delle Amazzoni: «Nessuno di noi arriverà vivo laggiù». Kinski, attore-feticcio nonché estensione corporea delle idee del regista, qui alla sua prima difficoltosa collaborazione con Herzog, incarna la quintessenza di quel senso d’incubo che pervade il film e che, svolgendosi, emergerà sempre di più perché fluisce da una visione della natura, che prende il sopravvento sugli uomini così come conquista il cuore dell’opera: le malattie decimano i partecipanti alla spedizione, la foresta li bracca e ogni movimento richiede sforzi immani. Possenti cannoni che potrebbero radere al suolo intere città nulla possono nella fanghiglia della giungla in cui s’incagliano. Ma, lungi dall’elaborare un’ingenua retorica filo-naturalistica che esalta la superiorità della natura sull’uomo nella bieca misurazione fra i due poli, Herzog sana ogni possibile scissione e mostra l’uomo come elemento naturale integrato appieno nel cosmo in cui si muove: in tale contesto, solo colui che fra gli uomini meglio interpreta il più intrinseco modo di essere della natura, s’afferma. Costui è Aguirre. Aguirre, la cui furia è specchio di quella degli elementi naturali presso i quali è testimone e agente e che lo circondano. Aguirre, che ferino si muove come un pericoloso predatore. E qui ci si avvicina al cuore tematico del film. Non esistono molteplici regni ontici nella visione herzoghiana, ma un unico cosmo che abbraccia l’intero dell’esistente: l’uomo è tanto animale quanto lo è un cavallo, partecipa tanto alla natura quanto vi prende parte un torrente. Herzog disegna la foresta come un luogo primitivo in cui l’imperfetta creazione non è ancora completa, quasi come un brodo primordiale in cui ogni sostanza culturale è velleità, prodotto alienante che allontana l’uomo da sé stesso, e viene a perire infrangendosi contro la bruta e spietata violenza circostante. Allora l’unica dicotomia che si crea è in seno al genere umano: l’uomo, rivolgendosi verso sé stesso, può o identificarsi coi propri costrutti e artifici che sottopone al vocabolo cultura, o divenire ciò che già è, animale fra gli animali. Nel profondo della foresta amazzonica, la cultura soccombe: ordigni materiali come i cannoni si rivelano inutili, la pompa dei palazzi reali è pletorica e ridicola, i culti religiosi si rivelano essere camuffamenti dell’impresa di colonizzazione. Aguirre non ha Dio e lo dichiara al frate che prende parte alla spedizione e della quale (ma solo nella finzione scenica, perché in realtà ne fu estraneo) si viene a sapere solo mediante il suo diario di memorie: «Prete, vedi di pregare, altrimenti il TUO Dio te la farà pagare cara». Egli non appartiene ad un’entità ultraterrena, è artefice di giochi politici nella misura in cui può così appagare il suo abissale istinto, si sforza allo sfinimento di far valere la legge del più forte. In questo modo, il traditore Aguirre si fa gioco di tutti gli aspetti della cultura umana rivoltandoli contro sé stessi e in questa flessione emergono ostilità, caos ed omicidio, come comuni denominatori di un universo che non conosce armonia, ma ingloba, ipnotizza o annienta. Aguirre è specchio di tale mondo e in questa sua ri-flessione amplifica l’incomprensibile oscurità della giungla, divenendo un individuo indecifrabile. Così anche la sua follia è la medesima della natura che sta intorno a lui: un’insaziabile brama di sopraffazione, un’aspirazione al dominio che non si placa fino all’annichilimento di ogni opposizione. Ma questa pazzia del luogotenente è solo il lato ombroso e originario di una cultura onnivora ed imperialista che, nel suo tentativo di annettere tutto quello che reputa estraneo, ragiona per metonimia e sineddoche: la presenza di una collana d’oro è segno che El Dorado esiste, la Bibbia in quanto parola di Dio testimonia l’esistenza dello Stesso. Infine Aguirre, traditore dei traditori, mira così in alto seguendo un interiore, animalesco bisogno tanto da trovarsi infine a capo di un esercito di cadaveri e scimmie. Questa visione dell’eroe rende Herzog il cantore dei grandi perdenti perché nel suo mondo non esiste grandezza senza un’inevitabile e tragica sconfitta, ed i suoi personaggi inafferrabili ad una mente che non pensa, ma calcola in base a concetti di utile o guadagno. Girato con soldi 370.000 dollari, di cui un terzo la paga di Kinski. Dopo un iniziale insuccesso di pubblico in Germania che indispose Herzog, l’opera divenne un cult movie e si rese giustizia da sé conquistandosi un ampio favore presso la critica mondiale.

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