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Quando si legge sulla locandina che “Finale a sorpresa” è una “commedia [interpretata da Penelope Cruz, Antonio Banderas e Oscar Martinez] che ha conquistato critica e pubblico della mostra del cinema di Venezia”, si va al cinema pregustando qualcosa di appetitoso e frizzante. Non che il film non faccia ridere, anche se non di continuo, o che risulti banale: anzi, c’è una notevole originalità nell’interpretare il genere meta-cinematografico, dove insomma si fa un film sul processo di realizzazione di un film (come Effetto notte, un esempio a caso), in analogia al metateatro (di pirandelliana memoria e non solo).
Ma viene messo in scena un palleggiamento continuo tra finzione e realtà che alla fine l’ambiguità domina sovrana e ognuno può costruirsi la propria verità sul cinema, sull’arte, sulla vita: come avviene nella dimensione quotidiana per terrapiattisti, negazionisti, putiniani. Il film, che un anziano imprenditore vuole finanziare, va detto, serve a immortalarne la fama e deve perciò essere al top.
La storia si svolge in un edificio dagli spazi enormi e nudi, dove i marchingegni dell’industria cinematografica sono quasi del tutto assenti, se si escludono microfoni, una camera, uno schermo e poco altro. Più che altro si assiste a scene di lettura del copione da parte dei due attori protagonisti, tra loro contropposti, secondo la regia della creativa Lola Cuevas (una Penelope Cruz sormontata da una criniera di riccioli rossi che enfatizza i lineamenti del suo viso minuto). Ma questi esercizi propedeutici alle riprese rivelano le differenze psicologiche e ideologiche dei tre, che sono disposti in uno schema triangolare, di tipo quasi edipico: Ivan, il più anziano, maestro di recitazione, rappresenta il padre e al tempo stesso il super-io, l’istanza morale; Felix, tombeur de femmes, figura il figlio e l’istanza edonistica; Lola, infine, non è il classico oggetto del contendere, anche perché lesbica: ma, da madre-matrigna, manovra i due maschi, aizzandoli uno contro l’altro o, al contrario, coalizzandoli contro di lei quando umilia il loro ego in una delle scene più forti del film: là dove una macchina tritatutto disintegra i trofei professionali più ambiti.
I due attori, per altro, incarnano anche due diverse ideologie, che spesso si affacciano nel cinema: una è quella che unisce al politically correct l’idea di un’arte impegnata, l’altra è quella che punta al successo commerciale. La regista gioca, alla fine in modo cinico, tra le due sponde e in definitiva lascia lo spettatore a bocca asciutta. L’interpretazione dei tre è magistrale. Quale sia il sugo della storia, un mistero.
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