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Il film è girato negli stessi luoghi di Dov’è la casa del mio amico del 1987 e del E la vita continua del 1992 e si propone come antefatto al secondo, rappresentando una troupe alla ricerca di attori, tra la popolazione locale, proprio per girare quel film, dopo il devastante terremoto del 1990.
Come nei due film citati, come anche, del resto, nel Il sapore della ciliegia e nel Il vento ci porterà via, il protagonista, nel perseguire un obiettivo particolare, in questo caso fare l’attore, rimane imprigionato in un movimento circolare. Nella coazione a ripetere innumerevoli volte la stessa azione e a ripercorrere lo stesso tragitto, su e giù per le scale della piccola casa al centro della scena, un quadretto familiare in cui deve fingere di essere il marito della ragazza. che ama senza esserne corrisposto nella realtà, perde di vista le cose essenziali della sua vita.
In questo, come in tutti gli altri film sopramenzionati, compare la figura demiurgica del vecchio saggio, il regista, che libera il protagonista dal loop mentale, lo invita a scendere dal camion della troupe e a fare due passi per tornare a casa. In questo modo, indirettamente, gli indica la strada per raggiungere il vero scopo della sua esistenza. Lo seguirà con lo sguardo mentre la rincorre nei prati, nell’inquadratura finale in campo lunghissimo, con i due attori che diventano puntini quasi impercettibili all’orizzonte in un mare di erba alta. Un unico sguardo abbraccia la natura e i due giovani amanti che si perdono in essa.
Il giovane che ritorna correndo verso i cesti, che aveva lasciato sulla collina per inseguire l’amata, suggerisce che la sua proposta sia stata accettata. La nostra speranza che sia andata effettivamente così ci dimostra che è semplice immedesimarsi in una storia narrata e crederla vera, allo stesso modo dei due protagonisti, che, recitando come due sposini nel film, hanno creduto poi possibile il loro matrimonio.
E’ la magia del cinema, che nel mostrarsi nudo, mentre svela i suoi trucchi, li nasconde in un gioco di specchi, raddoppiando la finzione per sviarci ancora una volta e sorprenderci nel desiderio di un lieto fine, non banale, ma un inno alla resilienza della vita che sconfigge la morte. La vita dopo il terremoto prosegue, si seppelliscono i morti, si ricostruiscono le case, nella consapevolezza che la prossima scossa potrebbe essere fatale per i sopravvissuti. Nonostante ciò la vita non s’arrende.
In Kiarostami ciò che resta al netto della finzione, della duplice finzione di Sotto gli ulivi, al di là del racconto come parabola del senso della vita ritrovato, che si ripete uguale in tutti i suoi film, sono i ritratti della gente comune che rappresentano la vita vera che il cinema interseca, cogliendola quasi per caso, nel suo accadere quotidiano. Al cinema di Kiarostami e di pochi altri grandi autori, penso a Bergman e a Ozu, è riuscita l'impresa di trasmetterne l’essenza con la poesia delle immagini.
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