Il Paradiso probabilmente

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Un film di Elia Suleiman. Con Elia Suleiman, Gael García Bernal, Holden Wong, Robert Higden.
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Titolo originale It Must Be Heaven. Commedia, Ratings: Kids+13, durata 97 min. - Francia 2019. - Academy Two uscita giovedì 5 dicembre 2019. MYMONETRO Il Paradiso probabilmente * * * - - valutazione media: 3,12 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Tutto il mondo è Palestina, ahimè

di francesca meneghetti


Feedback: 7166 | altri commenti e recensioni di francesca meneghetti
venerdì 24 luglio 2020

Il Paradiso probabilmente è uno di quei film che ti lasciano perplesso quando ti alzi dalla poltrona, ma che poi cominciano a frullare nel cervello lascandosi dietro una scia di punti di domanda. E allora capisci che il non è robetta. Ti sforzi di capire, leggi commenti e recensioni, ma non ti soddisfano.
Aiuta la comprensione del testo un minimo di contestualizzazione: sapere che Elia Suleiman nasce a Nazareth da una famiglia greco-ortodossa, si forma a New York, ha prodotto diversi film, conseguendo premi e attenzioni della critica, sulla questione palestinese, proposta però non in modo vittimistico, ma con propensione al grottesco.
Ciò compare sin dall’inizio, con la processione greco-ortodossa nella chiesa dell’annunciazione di Nazareth: inizia in modo solenne, con un coro che enfatizza le parole morte e resurrezione, ma muta registro quando il pope trova la cripta chiusa, con i due custodi ubriachi che si rifiutano di aprirla. Allora si trasforma in un energico combattente che sfonda la porta posteriore e pure i due uomini.
Il protagonista della vicenda è lo stesso regista, che però qui si chiama Es (non Elia) Suleiman, con richiamo, direi, all’Es freudiano, l’inconscio. E’ vedovo: la moglie è morta da poco in seguito a malattia invalidante (la casa ne porta ancora i segni, con i sussidi sanitari). Lui è solo e stranito. Osserva il mondo che lo circonda senza un commento che non sia quello dello sguardo (in tutto il film dirà solo pochissime parole sulla sua provenienza a un tassista nero di New York). Coglie l’assurdità della vita quotidiana di Nazareth, in particolare dei vicini, fuori di testa, e sembra vivere un tentativo di resurrezione dal lutto, sbarazzandosi degli oggetti della moglie e intraprendendo un viaggio. Non prima di aver assaporato il fascino di un uliveto, situato in luogo selvaggio, dove una donna araba, dalle vesti lunghe e dalle cavigliere tintinnanti, trasporta sul capo dei contenitori d’acqua.
Le sue mete saranno Parigi e New York. Le prima scene parigine sembrano improntate a un certo realismo convenzionale. Seduto al tavolo esterno di un bistrot, Es osserva bellissime donne, dalle bellissime gambe, sfilare con eleganza. Sfilano anche nel video che il protagonista osserva nel negozio di fronte, imperterrite, mentre una donna delle pulizie di colore e molto in carne pulisce e spolvera lo stesso schermo. Oppure assiste alla gara folle e crudele (a scapito dei più lenti e deboli) per accaparrarsi una sedia nel giardino del Luxembourg, uno dei posti più chic per prendere il sole e leggere. Ma poi ecco le sequenze che riprendono vie del tutto deserte: le sole presenze sono senzatetto o delinquenti o poliziotti o carriarmati (poi la cosa troverà un senso logico). A Parigi si svela anche uno scopo del viaggio: promuovere un film sulla questione palestinese, ma l’unico ad essere incuriosito, con fin troppa insistenza, da ciò che Suleiman scrive è un uccellino.
Anche a New si alternano scene realistiche con altre caricaturali e grottesche, come quella del supermercato, dove le casalinghe girano tra gli scaffali armate di fucile, o quella, superclassica, del Central Park in vestito autunnale, dove una donna vestita da angelo manifesta per la causa palestinese, venendo inseguita da poliziotti pasticcioni e inconcludenti. Il regista Suleiman dovrebbe parlare di fronte a un piccolo pubblico di studenti di cinema, abbigliati da animali di pelouche, ma non sappiamo se farà sentire la sua voce.
Es ritorna infine a Nazareth, il paradiso probabilmente, se messo a confronto con il mondo occidentale, là dove la tecnologia, applicata al controllo sociale, non impedisce violenze, terrore, ingiustizie, disuguaglianze, e, più in là, guerra e terrorismo. E allora la Palestina, inesistente come stato, diventa metafora di una situazione di non senso universale, mentre il palestinese, esule, spaesato (e senza terra come lo furono un tempo gli ebrei), diventa emblema dell’alienazione dell’uomo di oggi, che di fronte a tante assurdità non può che manifestare la propria perplessità con lo sguardo, senza proferire parola.
Sotto traccia rimane però il tema morte-vita, a cui si collega la donna portatrice d’acqua, che Es va a rivedere non appena ritornato “a casa”.
Ma in fondo una vera trama o un filo narrativo logico non esiste. Conta l'immersione nelle atsmosfere.

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nonnetti domenica 3 settembre 2023
molto d''accordo
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No
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complimenti per l''analisi

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adele mingrone sabato 25 novembre 2023
analisi lucida
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No
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Sono d''accordo su tutto, complimenti per la critica. Aggiungo che ho avvertito il profondo amore del regista per la sua terra, che decide di vivere nel presente, come fanno i ragazzi che ballano alla fine del film. Il futuro non si può prevedere, come dice il chiromante, e forse la nostra generazione non avrà il tempo di scoprire cosa succederà, ma la Palestina vivrà (bella la metafora della piantina trapiantata nel giardino, che cresce perché il vicino se ne è preso cura). Ho trovato la scelta narrativa molto originale.

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