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Da qualche parte, lassù, sopra l'arcobaleno

di francesca meneghetti


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martedì 4 febbraio 2020

La scena che strappa le lacrime è questa: Judy Garland, grande soubrette americana, nel suo ultimo live, si blocca nell’esecuzione di “Over the rainbow”, la voce rotta dal pianto, nella consapevolezza della fine imminente. Un anonimo ammiratore si alza in piedi e interrompe il silenzio di ghiaccio, creatosi in sala, proseguendo la canzone. Lo imitano, uno dopo l’altro, gli altri spettatori, a rendere un ultimo omaggio a Judy. E’ il suo funerale laico ante mortem.
E’ il momento alto del film, che pure “spacca” per la stupefacente interpretazione di Renée Zellweger, bravissima a cantare, ballare, modificare la postura così da risultare gracile e ingobbita fuori di scena, tonica e scattante sul palcoscenico. Meno convincente nell’espressione del viso (sottoposto a un trucco invecchiante), spesso atteggiato a quel sorrisetto tra l’imbarazzato e il compiacente che ricorda troppo Bridget Jones.
L’opera racconta un breve spaccato della vita di Judy, ormai sul viale del tramonto (la morte arriverà sei mesi dopo). Si trova a Londra, dove ha accettato una scrittura ben remunerata (senz’altro più dei 150 dollari ricevuti in una serata americana). Vi è stata costretta per pagare i suoi debiti e per comprare una casa, che non ha più, dove poter vivere con i suoi due figli più piccoli, che le mancano molto, e che sono contesi con il marito Sid.
Nel racconto londinese (che ha un breve prologo oltre Oceano) si inseriscono dei flashback che ricordano l’infanzia della sfortunata attrice: avviata al cinema da bambina, come figlia d’arte, e costretta, da adolescente, ad assumere psicofarmaci per far fronte alla fame (onde raggiungere la perfetta magrezza) e alla stanchezza (fino a 18 ore di lavoro!). Stanno qui le radici della propensione all’alcol e alle pasticche che accompagnano inevitabilmente la vita adulta. Ma la droga più forte è la venerazione del pubblico. Questa le dà energia e passione. Appena se ne allontana, riemergono la rabbia per il fallimento, la fragilità, la solitudine (colmata solo brevemente dall’arrivo dell’ultima fiamma, per la verità un giovane uomo interessato a sfruttare la sua fama).
Il tristissimo film, che vira verso il musical, è ben confezionato, quasi ad arte, al fine di aggiudicarsi almeno un Oscar. E’ anche autoreferenziale (nel senso che parla anche del cinema) e in tal senso piuttosto ipocrita: le accuse in esso contenute a un sistema che recluta giovani donne – gallinelle dalle uova d’oro – per sfruttarle al massimo, fino a farle deragliare così da dover ricorrere a sostegni etilici o chimici, si potrebbero rivolgere anche al sistema attuale. Ma non basta l’autocritica per ritrovare purezza.
C’è un altro punto che lascia perplessi: la rimozione, tranne un fuggevole incontro, della figura della figlia maggiore, Liza Minnelli. Eppure le due donne, sempre a Londra, al Palladium, erano state protagoniste di uno show straordinario. Solo cinque anni prima. Possibile che una madre in crisi non cerchi il contatto telefonico con una figlia grande, in grado di capirla? L’appeal del film avrebbe potuto crescere, oltretutto.
Forse le ragioni di questa omissione sono di ordine legale: Liza, che ha sofferto di problemi simili a quelli della madre, è ancora viva. E tutelata da temibili avvocati, si suppone. Ma allora il progetto su Judy era opportuno (date le ferite che potrebbe infliggere a Liza) o invece opportunistico (dato il cinquantesimo anniversario della morte di Judy)? Certo è che i sogni giovanili di Judy (o di Dorothy del Mago di OZ) sono rimasti davvero sospesi lassù, da qualche parte, sopra l’arcobaleno.

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