CUORI IN ATLANTIDE (USA, 2001) diretto da SCOTT HICKS. Interpretato da ANTHONY HOPKINS, ANTON YELCHIN, HOPE DAVIS, MIKA BOOREM, DAVID MORSE
Quando l’undicenne Robert Garfield, orfano di padre, riceve come regalo di compleanno una tessera per adulti della biblioteca anziché la bicicletta che tanto desiderava, la sua cocente delusione viene compensata dall’incontro col nuovo, misterioso vicino di casa, l’anziano Ted Brodigan, che accetta di pagarlo un dollaro a settimana a patto che il ragazzino gli legga quotidianamente il giornale. La di lui madre Liz non vede di buon occhio il fatto che il figlio e l’uomo si frequentino. Ted mette in guardia Robert dalla gente bassa, uomini riconoscibili dalle macchine che guidano e dai cappelli che indossano, i quali lo stanno ricercando per le sue doti da sensitivo che già gli hanno procurato notevoli guai. Fra il ricordo del padre scomparso su cui Bobby dovrà ricredersi (molto) in positivo e l’amicizia coltivata con la fidanzata Carol Gerber, il bambino scopre tremendi segreti sui trascorsi di Ted, dipendenti in gran parte dal suo potenziale di preveggenza, ma farà ogni cosa in suo potere per proteggerlo, e anche se non ci riuscirà, il loro rapporto non rimarrà senza frutti. E, una volta cresciuto, Bobby ritornerà nella malconcia casa della sua infanzia dove, invece di ricevere solo in eredità un vecchio guanto da baseball dal testamento del suo amico defunto John Sullivan, conoscerà la figlia di Carol, rilegandosi al lato idilliaco del proprio passato. Da un racconto – Uomini col soprabito giallo – di Stephen King, incluso nella raccolta Cuori in Atlantide (1999), il primo volume pubblicato dopo l’incidente stradale occorso all’autore di Portland in quell’anno. Il trasferimento dalla pagina scritta all’audiovisivo, purtroppo, si sente con drammatica feracità: quando si affida alle invenzioni cinematografiche, la storia stucca per via delle forzature, mentre quando tenta di seguire il racconto, centra in pieno il ridicolo involontario e delude per l’adattamento delle battute, risultanti meno graffianti e più manierate. Neanche l’apporto in sceneggiatura del maestro William Goldman riesce a rinforzare il debole impianto strutturale, e Hicks non è un regista tale da trarre un capolavoro di immagini e suoni da un’opera minore di un genio ormai noto a livello mondiale per come descrive l’infanzia, i conflitti famigliari, il mistero dell’occulto e delle magie che sconvolgono lo schema narrativo. Poco persuasivi gli attori (eccettuati Hopkins e Yelchin, il primo intrigante come sempre e il secondo bravo a tenergli testa come insolito allievo in procinto di intraprendere un cammino verso l’età adulta assai al di fuori dell’ordinario), non abbastanza dark l’ambientazione, carenza di suspense laddove avrebbe contribuito alla formazione di un involucro catartico di astrale bellezza. Ma in fondo è un cliché dei thriller scritti bene che si ripete dalla notte dei tempi dell’industria filmica: quando si legge, si avvertono sensazioni inquietanti di paura in grado di coinvolgere ed emozionare profondamente; quando se ne osserva la trasposizione, l’effetto si smarrisce e si banalizza dentro un cumulo di timide scimmiottature.
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