Humphrey Bogart (Humphrey De Forest). Data di nascita 25 dicembre 1899 a New York City, New York (USA) ed è morto il 14 gennaio 1957 all'età di 57 anni a Los Angeles, California (USA).
Quando è cominciato il culto di Bogart? Forse quando è uscito quell'insuperabile capolavoro che è Casablanca? O quando è diventato Marlowe in quel confuso capolavoro che è Il grande sonno? O quando si è coperto di una barbaccia incolta in Il tesoro della Sierra Madre, rinunciando ad esporre in toto il suo celebre volto? O quando è diventato il rigido ma innamorabile Linus che cede allo charme adolescenziale di Audrey Hepburn in Sabrina? No. Ufficialmente il culto di Bogart – non l'ammirazione per il grande attore dalla faccia di pietra e dalla risata agghiacciante, non quello per l'uomo tosto e simpatico, non quello per la metà di una coppia amatissima del cinema, ma il culto per quella che si chiama ora l'«icona» Bogart – il culto di Bogart è iniziato un giorno sullo schermo in bianco e nero di un regista eversivo come Jean-Luc Godard, che ha messo il suo giovanissimo Belmondo di fronte a uno specchio, all'inizio di A bout de souffle, e gli ha fatto dire: «Bogey».
Bogey era morto da due anni, nel 1957, e il suo personaggio di uomo duro, onesto, incapace di compromessi, sincero, leale senza sentimentalismi, divenne per una generazione in cerca di eroi un mito. Sono fioccate le biografie. Sono fioccate le celebrazioni. La ripresa di Casablanca e le analisi di chi, come Umberto Eco, ha esaminato quel film decidendo che non era «un film» ma «il film», ha inciso nella memoria collettiva una leggenda. E ora, a ripercorrere la storia di una star amatissima, arriva Jonathan Coe, scrittore di successo (il libro più celebre, La famiglia Winshaw, Feltrinelli, pp. 480, euro 8,5, ha avuto un notevole esito). Coe è un cinefilo sfegatato, che dei suoi Otto libri due ne ha dedicati ad altrettante leggende dello schermo, a James Stewart e, appunto, a Bogart, col titolo Caro Bogart una biografia (traduzione di Anna Mioni, Feltrinelli, pp. 136, euro 8,5, una prima edizione del libro era uscita 10 anni fa da Gremese). Premette l'autore: «Se le controversie sulle sue qualità umane tenderanno ad affievolirsi nel corso della storia, vero è che nessuno esce da uno dei grandi film di Bogart senza aver visto qualcosa che lo riempia e lo arricchisca. Se la sua carriera e i suoi film offrono buone ragioni per fame un culto è perché ci insegnano una strategia salutare, per stare dentro la vita quando va alla grande e quando è uno schifo. Per prenderla com'è».
Sarà: si può chiamarla strategia, si può chiamarla nevrosi, debolezza umana, o quel che volete. In effetti Bogart esce da queste pagine umano troppo umano, come d'altronde lo abbiamo sempre conosciuto, pronto a innamorarsi, sposarsi, divorziare, risposarsi in una catena di peccato e di legalità quasi comica, se non ci fossero state lacrime, dolore, coltellate (si racconta che la terza moglie gliene abbia inferta una, fortunatamente non fatale, giusto prima che andasse sul set). Questa catena si è saldata in un eterno amore quando nel 1943 il duro Bogart si ritrovò sul set di Acque del Sud, il film di Hawks che avrebbe dovuto ripetere (e non ripeté) l'irripetibile magia di Casablanca, con una ragazzina 19nne sì ma tosta, tale Betty Joan Perske, di New York, ex modella di Harper's Bazar. Betty divenne Lauren Bacall. E l'amore della vita, fino alla morte (anche se Hawks chioserà: «Bogart si è innamorato del personaggio che lei recitava, quindi le toccò recitarlo vita natural durante»: ed era il personaggio di una dura). La precedente consorte abbozzò – placata anche da un grande magazzino Safeway come buonuscita – e si creò attorno alla coppia Bogart-Bacall una leggenda di amore coniugale, impegno civile, battaglie comuni. Su cui Coe fa un po' le pulci... Ma procediamo con ordine.
La prima sorpresa è sapere che Bogey Il duro non viene affatto, tanto per dire, come Martin Scorsese, da un milieu altrettanto duro, ma da una tranquilla famiglia borghese, che giocava a tennis con gli amici, che era, insomma, uno «regolare», costretto dalla mamma ai più noiosi rituali sociali. Sarà stata la guerra a cui partecipò (si parla ovviamente di quella detta Grande e lontana in cui l'America entrò nel 1917)? Quando Bogey tornò, aveva 19 anni e decise che la sua vita era la recitazione: Broadway, dove accettò di fare le parti più umili, poi Hollywood, dove il successo arrivò subito, con La foresta pietrificata. Era un grande attore? Gli bastava portare in giro la sua faccia, la sua aria scontenta, la sua eterna sigaretta penduta (ricordate, in una celebre canzone degli anni 70, Don't Bogart that joint, my friend, pass it over to me, non fumarti quella canna come Bogart, amico, passala a me?), il bavero rialzato, l'impermeabile, a cui lui rese lo stesso servizio che Clark Gable aveva reso alla canottiera e Brando alla T-shirt: nobilitarlo e renderlo sexy. Poi il successo continuo e con la maiuscola: Bogart è stato l'unico attore di Hollywood, secondo Coe, a potersi permettere un contratto che gli consentiva di fare un solo film l'anno con la Warner e uno con chi voleva, che gli permetteva di rifiutare un film su tre.
Ci sono, nel libro di Coe, ovviamente, tutti gli aneddoti che ci si può attendere sulla avventurosa e casuale lavorazione di Casablanca, quando la Bergman non sapeva chi doveva baciare con maggior calore, se Bogart o Paul Henreid, perché non era stabilito a chi Michael Curtiz, nell'erratico sviluppo del copione, l'avrebbe alla fine destinata.
C'è la storia «sociale» del cinema di gangster di cui Bogey è stato, con Robinson, Raft, Cagney, uno dei volti più popolari. Ci sono le frasi celebri («Non vi è occupazione così simile alla schiavitù come il cinema») e le storie sulle sue leggendarie ubriachezze (durante il Grande sonno totalizzò 34 giorni di ritardo su 42 di lavorazione). Ma c'è, più sorprendente, la cronaca delle sue paure e dei suoi ripensamenti durante la caccia alle streghe maccartista. Non era un eroe puro e duro, Bogey. Fu uno dei primi a cedere, discolpandosi dalle sue posizioni «democratiche»: «Aborro il comunismo come tutti gli americani degni ditale nome», dichiarò a Newsweek. E dire che Hedda Hopper lo aveva indicato come «uno dei quattro uomini più pericolosi d'America». Non lo era: se la sua immagine è rimasta quella amatissima che conosciamo è perché aveva vicino una grande donna, che lo mantenne nel solco delle convinzioni democratiche e protesse la sua leggenda, fino alla sua morte, nel 1957, fino alla rinascita del suo mito, fino ad oggi.
Da Il Venerdì di Repubblica, 9 aprile 2004
Lo scandalo di Humphrey Bogart è finito: lo scandalo di un uomo maturo, quasi vecchio (era nato nel 1899), non bello, non elegante e neppure «racé», che si ostinava a tenere i primi posti nell'elenco del «box-office». Un attore che oltrettutto aveva avuto due carriere: come eroe di imprese criminali sfortunate nelle pellicole di anteguerra, da La foresta pietrificata a Strada sbarrata, e infine come protagonista inarrivabile del film nero: da Il mistero del falco di Huston a Il grande sonno di Hawks.
La sua foto più patetica è quando cammina, in colonna, con un gruppo che protesta contro alcune cose storte della politica USA; quella più cordiale, di pochi mesi fa, quando riceve a casa sua alcuni giovani interpreti ansiosi di conoscere il segreto del successo; la più tragica quella che lo vede al fianco della moglie Lauren Bacall, immagine dell'eleganza muliebre e del mistero dei rapporti amorosi. «Potrebbe essere suo padre,» dicevano i soliti filistei; ma Lauren, la bocca tumida carica di promesse, gli occhi di un grigio inquietante, guarda il suo «Bogie» con un'espressione che non può ingannare l'osservatore spericolato.
Come molti buoni attori del film parlato, Humphrey veniva dal teatro di prosa. Entrò nel cinema dalla porta di servizio e non troppo presto, a trenta anni. Si fece notare dagli intendenti con una curiosa e divertente pellicola sugli usi e costumi di Hollywood, di cui era protagonista Leslie Howard. L'ottimo attore inglese era un tipo cui era toccato in sorte di mettere in ordine una casa cinematografica in crisi; Bogart era un ipocondriaco ma intelligente regista cui Howard ricorreva per salvarsi dai guai. Quando lo vedemmo per la prima volta, correva l'anno 1936, Bogart non era altro che un nome; ci accorgemmo subito del tipo insolito, quando riapparve poco dopo nella folgorante raffigurazione del gangster innamorato nella Foresta pietrificata capace di tener testa ad autentici «mostri» come Bette Davis e Leslie Howard.
Capimmo che era nato un nuovo, grandissimo attore. Anche in Strada sbarrata di Wyler, Bogart era il delinquente malinconico, che appariva senza colpa, una vittima di la società o di una passione più forte delle difese che oppone il cuore di un povero uomo. Era un gangster nobile, così si può dire, un personaggio che sacrifica la propria vita un ideale di perfezione amorosa. Tutta l'originalità dell'attore consisteva nel rendere credibile, e quasi ovvia, una situazione morale ormai logora, che discendeva direttamente dal ribellismo romantico del beato Ottocento. Senza soluzione di continuità lo schioppo del «Passator cortese aveva fatto luogo alla pistola automatica e al fucile mitragliatore, mentre le assolate strade di Romagna erano sostituite dall'asfalto delle metropoli.
Come s'è accennato, malgrado le mirabili prove ante denti, solo nel dopoguerra Humphrey si conquista, paradossalmente, un ruolo di protagonista. Sempre più magro, guance infossate, il ciuffo aspro, l'impermeabile gualcito Bogart conquista le folle anche per merito della gran novità del film nero. Che cosa è il film «nero»? È un originale tipo di film poliziesco dal contenuto grossolano e crudele, nato, si direbbe, dagli orrori della guerra e dalle delusioni della falsa pace.
Il film poliziesco, classico, di una volta, consisteva in una netta linea di demarcazione tra bene e male, una separazione manicheistica tra angeli puri come la luce e demoni tinti senza rimedio nella pece del peccato. Nel film nero viene la confusione delle lingue: il poliziotto non è un malvagio dei gangster che persegue. È soltanto più prudente o più furbo. Quanto alle donne, son tutte sgualdrine.
Ma è ne Il grande sonno che Bogart raggiunge la perfezione. Ha al fianco Lauren Bacall, donna senza principi provvista di una sorellina ninfomane. Bogart conquista Lauren, ma in qualsiasi posto egli vada miete a volontà vittime femminili; la sua sola presenza basta a recidere alla base ogni residuo di giovanile pudore. Ama e uccide, questo in sintesi il Bogart del film nero. La sua volontà è lucida, lo sforzo intenso, ed ignora la paura: tutte doti messe al servizio di un immoralismo assoluto. Il poliziotto faceva il doppio gioco, con nessun riguardo al codice e alla legge morale: il premio era un mazzetto di dollari, e, qualche volta, una ragazza dal dubbio passato. Il resto era nulla, una giungla d'asfalto battuta dal caldo sole californiano.
La virtù istrionica di Bogart è fuori dubbio, se appena si rifletta un istante allo stile dei nuovi attori usciti dalla scuola di Kazan e soci. Humphrey è sotto il segno della virilità; è freddo, corretto, tranquillo anche nelle peggiori di-strette: arrotola se mai una sigaretta o, gesto caratteristico, posa pollice e indice congiunti sugli occhi. Non si può dire lo stesso di Marlon Brando, James Dean e Rod Steiger, le cui mani sono un continuo mulinello, la cui isteria appare come l'asso nella manica del gioco interpretativo.
Malato del famoso «male che non perdona», Bogart è stato freddo ed ironico fino agli ultimi giorni; rispondeva con distratta cortesia alle sollecitazioni telefoniche degli ammiratori e delle «comari». Che gli dei misericordiosi gli abbiano concessa una morte serena come quella che egli stesso metteva in opera, a pro di Elizabeth Scott, in una delle sue belle finzioni. Morente, Liz Scott, un'attraente ragazza dal brutto passato, ha il terrore del nulla che tra poco l'attende. Bogart la incoraggia con un'immagine: «Non è nulla» dice, «è come gettarsi col paracadute. Salta, ragazza.» Liz salta, e muore sorridendo.
L'ultima immagine di Bogart ce lo mostra davanti alla macchina da scrivere alla fine di The harder they fall (Il colosso di argilla, 1956) mentre si accinge a stendere la sua confessione. Piuttosto che quest'ultimo ruolo nel quale fu mollemente diretto da Mark Robson, conserveremo il ricordo di quello del regista in The barefoot contessa (La contessa scalza, 1954); quando seppelliscono Ava Gardner lui è lì, sotto la pioggia, in impermeabile, e dice prima di lasciare il cimitero: “Ci sarà il sole domani, potremo lavorare”. In questo film Bogart interpretava, né più né meno, la parte di Joseph Mankiewicz.
Humphrey Bogart si è sempre divertito a farci credere di essere nato il giorno di Natale di un anno in cui era Natale tutti i giorni: 1900. Humphrey era il cognome di sua madre attrice, lui ne fece il suo nome. Pessimo scolaro, pessimo marinaio, pessimo marito, aspettava che il cinema lo trasformasse nel migliore in tutto.
La prima volta che si parlò di lui in un giornale, fu a proposito di una commedia nella quale lui aveva una particina: “Per parlare gentilmente diremo di questo attore che non era all'altezza del ruolo”. Humphrey restò di pietra e fu precisamente in questo periodo che Leslie Howard gli fece interpretare al suo fianco The petrified forest (La foresta pietrificata, 1936) in teatro prima e poi al cinema. Seguirono una trentina di Thrillers nei quali Bogart ebbe parti di secondo piano, piuttosto ignobili, facendo da spalla al protagonista: Victor McLaglen, Spencer Tracy, Edward G. Robinson, James Cagney, George Raft o ancora Paul Muni. La tradizione hollywoodiana esige che un attore diventato celebre facendo parti di gangster salga di posto nella gerarchia cambiando di campo, l'assassino diventa poliziotto e vede la sua paga decuplicata; siamo al cinema e il destino di Vidocq, diritto e rovescio, illustra bene questa amara promozione.
Dal 1936 al '40, Humphrey Bogart dorme in piedi girando storie che appunto lo fanno dormire. Il 1° gennaio 1941 afferra la sua occasione a piene braccia e a piene labbra: il corpo e la bocca di Ida Lupino. Stringe il primo e bacia la seconda. Si trattava di High sierra (Una pallottola per Roy, 1941), uno dei migliori film di Raoul Walsh su una sceneggiatura di John Huston... e in un ruolo rifiutato da James Cagney.
Un poco più tardi, John Huston è sul punto di girare il suo primo film The maltese falcon (Il mistero del falco, 1941). Per interpretare Sam Spade, il bel personaggio di Hammett, pensa immediatamente a... George Raft che rifiuta a tutto vantaggio di Bogart che, invece, accetta di cercare il falso falcone. Il vero, se esiste, vola ancora. Il bandito è diventato un “privato” con la tessera di poliziotto in tasca, senza la quale ci si potrebbe sbagliare. Ha abbandonato la rotta del delitto e fa il suo bilancio: in meno di quaranta film, è morto sulla sedia elettrica una dozzina di volte e ha totalizzato più di ottocento anni di penitenziario. Prima parlava solo la sua Luger, ora è lui che parla e cosa dice? Signore, sono alto un metro e settantasette e peso settantasette chili. Ho i capelli bruni e gli occhi castani. Il mio primo matrimonio è durato diciotto mesi (di troppo) e il secondo Otto anni (di troppo) e non ci cascherò più, fino alla prossima volta.
Camminare e parlare, parlare e camminare, questa è ora la sua nuova occupazione. Passando per le strade, tocca con le mani tutto ciò che gli capita a tiro; è così che una bombola antincendio, la ringhiera di una scala, il cranio di un monello diventano altrettanti punti di riferimento sulla sua strada; Bogart si adatta in modo formidabile alla vita e si incolla a essa. Più costruisce il suo personaggio, più impara a tormentarsi l'orecchio per esprimere lo stupore. Credete che si passi le unghie sul risvolto della giacca? Guardate bene, vedete il braccio stendersi e sorprendere lo scagnozzo in piena faccia, “Porta questo messaggio al padrone. Quando vi dicevo che con lui bisogna rispettare le distanze!
I migliori sceneggiatori hanno scritto su misura per lui le loro migliori sceneggiature e i loro migliori dialoghi. È dunque possibile parlare dell' “opera scritta” di Humphrey Bogart: “Hallo dolcezza? L'ideale sarebbe una donna che si potesse ridurre a dieci centimetri e tenersela in tasca”. Oppure: “Ho visto raramente tanti revolver per così poco cervello”.
Avete visto la sua morte in The big shot (Il terrore di Chicago, 1942) di Stuart Heisler? Egli vuole consegnarsi alla giustizia e si tratta per lui di seminare le motociclette della polizia e di arrivare prima di loro in prigione. Vince questa gara paradossale ma è morendo che pronuncerà davanti al direttore del carcere le parole che scagioneranno la ragazza che non aveva fatto niente di male: “Sposatevi, fate dei marmocchi, come nelle storie!”. Il direttore di prigione gli offre una sigaretta: “Allora, fumate sempre la stessa porcheria?”.
Ma Bogart ha recitato ruoli più seri e non meno drammatici. Quello del giornalista incorruttibile in Deadline-USA (L'ultima minaccia, 1952) che Richard Brooks, all'italiana, girò negli uffici del “New York Daily News” con i linotipisti che facevano da comparse. In questo film, niente fandonie e niente musica; soltanto i rumori delle rotative, dei telefoni e delle macchine da scrivere. Un altro Richard Brooks, Battie circus (Essi vìvranno, 1953), misconosciuto tra i misconosciuti, gli ha offerto il suo ruolo più bello: quello di un medico militare che vorrebbe amare June Allyson senza essere obbligato a farsi trascinare dal sindaco.
Un giorno la signora Hawks, che è la moglie del più intelligente regista americano, scopre sulla copertina di un rotocalco una splendida ragazza dagli occhi sognanti: è la futura “the look” (lo sguardo), Lauren Bacall, che fa quindi la conoscenza di Howard Hawks, poi di Bogart. Sarà fingendo di dormire (The big sleep, Il grande sonno, 1946) che il loro amore si sveglierà e decideranno di dormire assieme per tutta la vita. Questo incontro fu Don Giovanni messo in scacco da uno sguardo. The big sleep è il film del colpo di fulmine, To have and bave not (Acque del sud, 1945) sarà quello del matrimonio e la tenuta di Bogart (cappello, Luger, sigaretta e telefono) si arricchisce di un nuovo accessorio: Betty. Si sposano a casa di Louis Bromfield e comperano nel Benedick Canyon il ranch dì Thomas Ince dove ancora aleggia il profumo di Hedy Lamarr che lo aveva abitato. Il loro yacht si chiama “Santana” e Bogart non tarda a fondare una sua casa di produzione, La Santana, in cui Nicholas Ray fa le sue prove da maestro: Knock on any door (I bassifondi di San Francisco o Crimen, 1949), In a lonely piace (Diritto di uccidere o Paura senza perché, 1950). Fu Nicholas Ray a trasformare Bogart in un eroe significativo, più e meglio di un attore, un personaggio di cui cercherò di tracciare un profilo.
Rasato di fresco ma già con un'ombra di barba, le sopracciglia piegate verso le tempie, le palpebre semichiuse, una mano portata in avanti, pronto a discolpare o a confondere, Humphrey Bogart misura in lungo e in largo il tribunale della vita, e i suoi passi sono scanditi, sbottona la sua giacca, passa i pollici sulla cintura dei pantaloni e comincia a parlare. A ogni inizio di frase mette in mostra una dentatura irregolare. La sua parlata a scatti dà rilievo alla vocale A e alla consonante K. Tutti sanno che risonanza ha, detta da lui, la parola racket. Le pieghe della sua faccia ricordano irresistibilmente il ghigno di un cadavere allegro, l'ultima smorfia di un uomo che sta per morire sorridendo.
Sì, era ben lì il sorriso della morte e alcune settimane prima di morire, avendo perduto diciotto chili, sghignazzava: “Non esco in strada per paura di prendere il volo, ma non appena avrò ripreso un po' di peso farò un film con John”. Si trattava di John Huston.
Ciò che Bogart faceva, lo faceva meglio di chiunque Poteva recitare più a lungo di un altro senza parlare. Minacciava come nessun altro e macchinava ammirevolmente i suoi colpi. Si potevano strizzare le sue camicie tanto sudava, quando c era da sudare.
Humpbrey Bogart aveva una bella testa da duro: gli si addicevano il sudore e lo sforzo con John Huston, la violenza calcolatrice con Nicholas Ray, l'intelligenza fredda e lucida con Howard Hawks. Questo volto affascinante in uno dei suoi ultimi film arriva al sublime, The Caine mutiny (L'ammutinamento del Caine, 1954); nel ruolo di un generale, un osso duro, Boggy apparve come era veramente, perché non si truccavano gli attori nei vecchi film Technicolor. Si vedeva per la prima volta sul suo labbro superiore la cicatrice lasciatagli molto tempo prima, in marina da una scheggia di legno mentre lucidava il ponte con un fondo di bottiglia.
Humphrey Bogart era un eroe moderno. Non gli si addicevano i film in costume, storici o di pirati. Era l'uomo dello starter, del revolver nel quale non è rimasta che una sola pallottola, l'uomo del cappello che cambia forma sotto le sue dita a seconda che si tratti di esprimere collera o gioia, l'uomo del microfono: “Hallo, hallo, a tutte le auto. . .”.
Se l'aspetto di Bogart è moderno, la sua morale, a ragione, era classica, era più vicino al duca di Nemours di La Princesse de Clèves che al commissario Maigret e sapeva che le cause valgono meno della bellezza dei gesti che le servono e che è pura ogni azione che non si sottrae alla sua logica conclusione.
Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975
La stagione cominciò male quanto ad attori: con una inflazione del legnoso George Brent e dell'antipatica virago nordica Ingrid Bergman. Poi per fortuna c'è stata una serie di film con Humphrey Bogart, film in genere mediocre (meno Il mistero del falco, ispirato da un bellissimo "giallo" di Dashiell Hammett); ma sempre riscattati dalla presenza di questo straordinario attore. Abbiamo scoperto Bogart tanti anni fa, al tempo della Foresta pietrificata; lo vedemmo, dopo in altre pellicole, sempre sacrificato. Poi, al varco della quarantina, si sono accorti di lui, come accade anche a Hollywood; scoprendolo come un ideale interprete di testi letterari, di Hemingway soprattutto. Congiunto alla capziosa Laureen Bacall (dicono che quando non è col marito Laureen non è capace di recitare), Bogart rappresenta il nuovo tipo di "eroe" americano maturato nella guerra. Ha una consapevolezza che né Gable né Cooper possedevano. E' l'homo novus di una civiltà che ha superato la coscienza, il peccato, e la letteratura. Nel suo ultimo film, Nebbie insanguinate, Bogart è coerentemente fedele alla sua raffigurazione romantica: come nessuno oggi a Hollywood egli 3a impugnare una pistola e dire parole d'amore, nude e essenziali, alle donne che gli piacciono. Da Candido, 28 giugno1947
Chi non porta il lutto di Humphrey Bogart morto a cinquantasei anni di un cancro all'esofago e di un mezzo milione di whisky? La scomparsa di James Dean ha colpito soprattutto le minori di vent'anni di sesso femminile, quella di Boggy i loro genitori o almeno i loro fratelli maggiori, ed è soprattutto un lutto per gli uomini. Più seduttore che seducente, Bogart piaceva alle donne nei film; per lo spettatore, mi sembra che sia stato più l'eroe al quale ci si identifica che .quello che si ama. Le donne possono rimpiangerlo, ma conosco uomini che lo piangerebbero se non fosse per l'incongruità del sentimento sulla tomba di questo duro. Né fiori né corone.
Arrivo un po' tardi per fare la mia orazione funebre. Si è già scritto molto su Bogart, la sua persona e il suo mito. Ma nessuno forse meglio di Robert Lachenay, già più di un anno fa (Cahiers du Cinéma, n. 52, novembre 1955), di cui non posso fare a meno di citare queste parole premonitrici: «Ogni inizio di frase rivela una dentatura vagabonda. La contrazione della mascella evoca irresistibilmente il rictus di un cadavere gaio, l'espressione ultima di un uomo triste che se ne andasse sorridendo. È proprio il sorriso della morte.»
Appare chiaro adesso in effetti che nessuno più di Bogart ha, per così dire, incarnato l'immanenza della morte, la sua imminenza anche. Non tanto del resto di quella che si dà o che si riceve quanto del cadavere differito che è in ciascuno di noi. E se la sua morte ci tocca così da vicino, così intimamente, è perché la ragion d'essere della sua vita era in qualche maniera quella di sopravvivere. Così in lui il trionfo della morte è doppio perché vittorioso meno della vita che della resistenza alla morte. Mi si capirà forse meglio se oppongo il suo personaggio a Gabin (al quale lo si potrebbe peraltro per tanti altri aspetti paragonare). L'uno e l'altro sono eroi della tragedia cinematografica moderna, ma con Gabin (parlo naturalmente di quello di Le jour se lève o di Pépé le Moko) la morte e in fin dei conti, al termine dell'avventura, implacabile all'appuntamento. Il destino di Gabin è appunto di essere ingannato dalla vita. Ma Bogart è l'uomo di dopo il destino. Quando entra nel film è già l'alba livida dell'indomani, irrisoriamente vittorioso del macabro combattimento con l'angelo, il volto segnato da ciò che ha visto e il passo pesante per tutto ciò che sa. Avendo dieci volte trionfato della morte, sopravviverà senza dubbio per noi una volta di più.
Non è la cosa meno ammirevole del personaggio di Bogart il suo affinamento attraverso la decrepitezza. Questo duro non ha mai brillato sullo schermo per la forza fisica o per l'agilità acrobatica. Né Gary Cooper né Douglas Fairbanks! 1 suoi successi di gangster o di detective li deve innanzitutto alla sua capacità d'incassare, poi alla sua perspicacia. L'efficacia del :suo pugno testimonia meno della sua forza che della sua prontezza nella replica. Lo piazza bene, certo, ma soprattutto al momento buono. Colpisce poco ma sempre in contropiede. E poi c'è il revolver che diventa in mano sua un'arma quasi intellettuale, l'argomento che disorienta. Ma quel che voglio dire è che le visibili stimmate che segnavano sempre di più il personaggio da una decina d'anni non facevano altro che accentuare una debolezza congenita. Somigliando sempre di più alla sua morte, è di se stesso che Bogart portava a termine il ritratto. Non si ammirerà mai abbastanza senza dubbio il genio di questo attore che seppe farci amare e ammirare in lui l'immagine stessa della nostra decomposizione. Come ucciso ogni volta un po' di più dai tiri mancini subiti nei film precedenti, era diventato a colori l'essere straordinario dallo stomaco ruttante, giallastro, che sputa i denti, pronto per le sanguisughe delle paludi, e che pure porterà l'«African Queen» a destinazione. E ricordate il volto marcio che testimonia al processo degli ufficiali del «Caine». Era visibile che la morte non poteva più da tempo colpire dall'esterno l'essere che da tempo l'aveva così interiorizzata.
È stato giustamente sottolineato il carattere «moderno» del mito Bogart, e J.P. Vivet ha doppiamente ragione di prendere l'aggettivo in senso baudelairiano dato che ammiriamo nel protagonista della Contessa scalza proprio l'eminente dignità del nostro marciume. Ma vorrei nondimeno notare che a questa modernità a lunga portata che assicura al personaggio di Bogart la sua poesia profonda e giustifica senza dubbio la sua entrata nella leggenda risponde, alla scala della nostra generazione, una modernità più precisa. Bogart è senza dubbio tipicamente l'attore mito della guerra e del dopoguerra. Voglio dire degli anni dal '40 al '55. Certo, la sua filmografia fa risultare qualcosa come settantacinque film a cominciare dal 1930, di
cui una quarantina prima di High Sierra e Il mistero del falco (1941). Ma in essi ha solo dei ruoli secondari ed è indiscutibile che il suo personaggio è nato con quello che si è convenuto chiamare il film criminale nero di cui incarnerà l'eroe ambiguo. È comunque, per noi, dopo la guerra e specialmente con i film di Huston che Bogart ha conquistato la sua popolarità. Ora si sa d'altra parte che gli anni '40-'41 segnano proprio la seconda grande tappa dell'evoluzione del film americano sonoro. Il 1941 è anche l'anno di Citizen Kane. Ci deve quindi senza dubbio essere qualche armonia segreta nella coincidenza di questi avvenimenti: la fine dell'anteguerra di cui Gary Cooper potrebbe essere il prototipo: bello, forte, generoso, che esprime molto di più l'ottimismo e l'efficacia di una civiltà che la sua inquietudine. Perfino i gangster sono del tipo conquistatore e attivista, eroi di western sbandati, forma negativa dell'audacia industriosa. Solo forse George Raft lascia intravedere fin da quel momento questa introversione, fonte di ambiguità, che il protagonista del Grande sonno porterà al sublime. In Key Largo Bogart trionfa contro Robinson dell'ultimo gangster d'anteguerra; con questa vittoria, è forse finalmente qualcosa della letteratura americana che penetra a Hollywood. Non per il tramite ingannevole delle sceneggiature ma attraverso lo stile umano del personaggio. Bogart è forse al cinema la prima illustrazione dell'«età del romanzo americano».
Non bisogna certo confondere l'interiorità della recitazione di Bogart con quella che la scuola di Kazan ha sviluppato e che Marlon Brando, prima di James Dean, ha reso di moda. Non hanno in comune che la loro reazione contro la recitazione di tipo psicologico; ma taciturno come Brando o esuberante come Dean, lo stile Kazan è fondato su un postulato di spontaneità anti-intellettuale. Il comportamento degli attori si vuole imprevedibile poiché non traduce più la logica profonda dei sentimenti ma esteriorizza impulsi immediati il cui rapporto con la vita interiore può leggersi direttamente. Il segreto di Bogart è diverso. È chiaro che è di Conrad il silenzio prudente, la flemma di chi sa i pericoli delle rivelazioni intempestive, ma soprattutto l'insondabile vanità delle sue sincerità epidermiche. Diffidenza e stanchezza, saggezza e scetticismo Boggy è uno stoico.
Ammiro particolarmente nel suo successo il fatto che in fondo non sia dipeso in nulla dal carattere dei personaggi che ha incarnato. Bisognerebbe infatti che fossero tutti simpatici. Ammettiamo pure che l'ambiguità morale di Sam Spade del Mistero del falco o di Philip Marlow del Grande sonno torni nella nostra stima a loro vantaggio, ma come difendere il tristo farabutto del Tesoro della Sierra Madre o il sinistro comandante del Caine? Per alcuni ruoli di riparatore di torti o di flemmatico cavaliere di una nobile causa, altrettante imprese senza dubbio meno raccomandabili se non francamente odiose. La permanenza del personaggio si situa dunque al di là dei suoi ruoli, il che non è il caso di un Gabin per esempio e non poteva esserlo neppure di un James Dean. È difficile anche immaginare come Gary Cooper potrebbe pretendere di impersonare delle canaglie. L'ambiguità tipica dei ruoli che fecero i primi successi di Bogart nei film criminali neri si ritrova dunque nella sua filmografia. Le contraddizioni morali si incontrano tanto all'interno dei ruoli quanto nella permanenza paradossale del personaggio fra,due impieghi apparentemente incompatibili.
Ma non è appunto la prova che la nostra simpatia andava, al di là stesso delle biografie immaginarie e delle virtù morali o della loro assenza, a una qualche saggezza più profonda, a una certa maniera di accettare l'umana condizione che poteva essere comune alla carogna e al coraggioso, al fallito come all'eroe? L'uomo bogartiano non si definisce per il suo rispetto accidentale o il suo disprezzo delle virtù borghesi, per il suo coraggio o la sua vigliaccheria, ma innanzitutto per quella maturità esistenziale che trasforma a poco a poco la vita in una ironia tenace a spese della morte. (1957)
Da André Bazin Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano, 1999