Bertrand Tavernier. Data di nascita 25 aprile 1941 a Lione (Francia) ed è morto il 25 marzo 2021 all'età di 79 anni a Sainte-Maxime (Francia).
Ho sfiorato il disastro, dice Bertrand Tavernier, 58 anni, nato a Lione come i fratelli Lumiére, il regista ( Che la festa cominci, Il giudice e l'assassino, La morte in diretta,'Round Midnight, Una domenica in campagna, Daddy Nostalgie, L'esca, Capitano Conan) al quale France Cinéma dedica la retrospettiva, curata da Francoise Pieri, della sua 14a edizione. Il festival fiorentino del cinema francese, diretto da Aldo Tassone e sponsorizzato tra gli altri da Citroen, Gan, Cinzano-Grand Marnier, presenta pure il film più recente di Tavernier, Ricomincia da oggi con Philippe Torreton. Disastro? Quale disastro? “Non ci vedo. Non posso leggere né scrivere. Per ora mi limito a dettare, magari il prossimo film lo dirigerò in Braille. Ho subìto il distacco delle retine. Sono stato operato. Spero che questa mancanza della vista non sia definitiva, intanto non mollo: spedisco lettere, faccio progetti, conduco polemiche, ricevo persone (anche quelle così gentili da venire da altre parti d'Europa per incontrarmi e dirmi una parola d'amicizia, d'affetto)”. France Cinéma, e anche il festival di San Sebastian, le hanno dedicato le loro retrospettive: non è un po' presto, alla sua età? “Mi auguro non voglia dire che ho il piede nella fossa, che non intendano sotterrarmi al più presto. Adesso, comunque, le retrospettive possono essere anche precipitose, riguardare registi giovani: quelle degli anziani sono già state fatte, e ci sono tanti organizzatori di retrospettive che hanno bisogno di lavorare. Per me è un onore. Sono molto contento che i miei film possano venire visti o rivisti, da spettatori vecchi o nuovi, su un grande schermo cinematografico anziché nel riquadro del televisore”. Il protagonista del suo nuovo film Ricomincia da oggi, un maestro e direttore d'asilo, è un personaggio positivo, così come lo erano i poliziotti di L. 627 o Philippe Noiret in La vita e nient'altro... “Io diffido delle etichette. Personaggio positivo? È un uomo che lotta, che rifiuta d'accettare il pessimo stato delle cose. Sbaglia, commette errori anche con conseguenze drammatiche, non è infallibile. Mi ha sempre interessato, mi piace, la gente che si batte per fare bene il suo lavoro, per respingere cose vergognose. Gente che lavora nelle istituzioni (la scuola, la polizia, l'esercito), che si rende conto del fatto che in realtà il sistema non vuole che le cose funzionino, che si batte e quindi diventa rompiscatole per quei tecnocrati amici dell'inerzia e del silenzio. Gente che prende sul serio i propri doveri e responsabilità. Che sa di non poter cambiare il mondo ma continua a provarci, a battersi. Nella realtà c’è molta gente del genere? Io l'ho conosciuta, l'ho incontrata. Il cinema non se ne occupa, o almeno non se ne occupa abbastanza: la moda portava anzi a irridere personaggi simili, ma adesso le cose vanno cambiando. Questi personaggi, non eroi muscolari all'americana ma eroi quotidiani, c'erano già nei film di Rossellini, in quel cinema italiano che mi ha nutrito. Ci sono ancora, e fortunatamente cominciano a prendere la parola: solo battendosi si può cambiare qualcosa. Il cinema può quindi avere, anche oggi, una funzione sociale? Una doppia funzione. La prima, nella zona dove il film è stato realizzato: il fatto di venir filmati con i loro problemi in Ricomincia da oggi ha dato ai cittadini slancio, coraggio, una specie di orgoglio. La seconda funzione è più generale: ho ricevuto duemila lettere di gratitudine, dopo l'uscita del film. Per me è moltissimo: un ruolo modesto mi basta, se arrivo a condensare la collera della gente e portarle calore, mi va bene”. Lei ha sempre avuto passione per il cinema popolare, ha fatto conoscere in Francia Vittorio Cottafavi, Riccardo Freda, Mario Bava. Questo genere la interessa ancora? “Mi interesserebbe, ma forse quell'abbandono, quell'ingenuità appassionata, quello slancio avventuroso si sono perduti in un'angustia piccoloborghese. C’è un nuovo Freda in Italia? Io non lo so, da noi i film italiani sono quasi spariti e purtroppo se n'é andato un sostenitore del cinema italiano persino più forte di me, Simon Misrahi. Lei ha cominciato a lavorare nel cinema come press-agent: è un mestiere che farebbe ancora oggi? Lo faccio, in certo modo. Non intendo vantarmi, ma credo di essere una persona incapace di invidia meschina, capace invece di ammirare il talento quando lo vedo. Se amo un film, vado a parlarne alla radio, scrivo articoli. Dirigo una collana editoriale che pubblica libri su altri registi e cineasti. Faccio programmare film altrui all'Institut Lumiére di Lione: la più recente è una rassegna di film inglesi degli Anni Quaranta, quasi inediti e incantevoli. Continuo a battermi per il cinema e per i registi passati e presenti. Spendo molto tempo a difendere e sostenere il lavoro altrui Lei è sempre stato un grande sostenitore del cinema italiano. Lo è ancora? Adesso voglio organizzare a Lione un Omaggio a Monicelli e ai suoi film, I compagni è un'opera sublime. Ma in Francia escono così pochi film italiani che è difficile giudicare. Una parte di responsabilità è della critica francese, pretensiosa, snob, apodittica, che ha sentenziato: a parte Moretti e Almodovar, il cinema italiano e il cinema spagnolo non esistono. Anche contro lo snobismo bisogna battersi.
Da La Stampa, 4 Novembre 1999
È figlio di un giornalista antifascista che resistette ai compromessi di Vichy. Afflitto dalla scarsa coesione della famiglia che gli amareggia l'infanzia, innamorato del cinema (americano, in particolare), tenta studi di legge, li abbandona, si dedica alla critica cinematografica (su Positif), dirige episodi di film, scrive copioni. A 33 anni esordisce ricavando da Simenon un giallo intrigante e di grande precisione ambientale (Lione), interpretato da quel Philippe Noiret che gli sarà più volte accanto: L'orologiaio di Saint Paul (1974). La sottigliezza dell'indagine psicologica che rivela la presenza del criminale dove meno te l'aspetti - Il giudice e l'assassino (1975) - è la dote più sicura del regista. Ma non l'aiuta subito, perché Tavernier dovrà attendere 5 anni prima di poter girare una lugubre vicenda fantascientifica - La morte in diretta (1980) - che vede un cronista con una telecamera miniaturizzata infissa nel cervello pedinare una donna (Romy Schneider) cui è stata preannunciata una morte imminente.
Ripresa l'attività, il regista ottiene due buoni successi con Una domenica in campagna (1984), ritratto di famiglia che riguarda un pittore impressionista ma che evidentemente allude a fatti autobiografici, e con una commossa elegia del jazz interpretata da un sassofonista americano che tiene concerti a Parigi, Round Midnight -A mezzanotte circa, (1986); non trova consensi per il truce quadretto medievale Quarto comandamento (1988); tocca nuovamente le corde giuste, e con una maturità narrativa maggiore (che tiene conto delle esigenze dei generi), quando affronta La vita e nient'altro (1989), storia di un amore
«impossibile» fra un ufficiale incaricato di identificare i caduti della prima guerra mondiale e una signora venuta a cercare i resti del suo caro, e, soprattutto, Daddy Nostalgie (1991), la toccante dichiarazione d'amore di una donna (una sceneggiatrice) al padre che sta morendo. Brutale e diretto quanto gli ultimi due sono sfumati è il successivo film sulla droga, Legge 627 (1992).
Tavernier ha le qualità per stringere i suoi temi in un blocco lucido ed espressivo. Talvolta sembra riuscirvi. Talaltra - come nel contestato Orso d'oro a Berlino L'esca (1995), film inerte nonostante i ritmi convulsi - no.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Originario di Lione, dove è nato nel 1941, a quattordici anni Bertrand Tavernier sapeva già di voler fare il regista; in un quaderno su cui incollava i fotogrammi, scrisse e sottolineò i nomi dei primi tre registi che l’avevano impressionato: Ford, Hathaway, Wellman. Abbandona gli studi di legge per dedicarsi alla critica cinematografica (“Cinéma 61”, “Positif”). Cinefilo, innamorato del cinema americano di serie b e di autori come Losey, Boetticher, Walsh, Ulmer, Daves, Parrish (in collaborazione con Coursodon pubblica il volume “Quarante ans de cinéma américain”), assistente di Melville (Léon Morin prêtre), passa alla regia grazie a Georges de Beauregard che gli affida due sketches in film collettivi. Da addetto stampa indipendente sceglie accuratamente i film per i quali lavorare.
Dopo aver partecipato a diverse sceneggiature gira a Lione, nel 1974, L’horloger de Saint-Paul in cui, pur restituendo lo spirito di Simenon, riesce a trasmettere quella carica umana che gli è propria. Que la fête commence (1975), vincitore di quattro César, rivisita l’epoca della Reggenza in chiave di riflessione critica della società. Attraverso la rievocazione di un celebre caso di follia criminale della Terza Repubblica, Le juge et l’assassin (1976) esplora con grande efficacia il fascino reciproco di personaggi opposti e l’irriducibilità delle barriere sociali.
Partigiano di un cinema classico pre-Nouvelle Vague (è sicuramente uno dei migliori specialisti del cinema francese degli anni Trenta) ricorre polemicamente alla collaborazione di Jean Aurenche e Pierre Bost, sceneggiatori e dialoghisti precisi ed efficaci dei film di Autant-Lara e René Clément e bersagli preferiti della giovane critica della Nouvelle Vague.
Des enfants gâtés (1977) affronta coraggiosamente i problemi sociali ed esistenziali di un gruppo di inquilini. La mort en direct (1979) illustra la mancanza di deontologia di un voyeurismo audiovisivo istituzionalizzato, dove fa da sfondo la decadenza urbana di Glasgow.
Une semaine de vacances del 1980 (la crisi di una professoressa disorientata nella Francia di oggi) segna il ritorno al malessere esistenziale contemporaneo. Tratto da un romanzo di Jim Thompson, Coup de torchon (1981) è un film truculento e torbido che suggerisce un sottile slittamento dal clima coloniale anni Trenta a un’inattesa inquietudine mistica. Un dimanche à la campagne (1984), adattamento cinematografico di un romanzo di Pierre Bost (le riflessioni di un vecchio pittore che si interroga su se stesso, l’arte, la famiglia, il tempo che fugge) è un omaggio plasticamente e criticamente riuscito all’impressionismo e alla fine della Belle Époque.
In La passion Béatrice (1987), un racconto medievale tra l’atrocità blasfema e l’assoluta purezza, Tavernier – che ricorre qui alla collaborazione del vecchio amico Riccardo Freda – proietta un’ossessione personale, la passione incestuosa e demoniaca di un padre per la figlia. Dopo il successo internazionale di Un dimanche à la campagne, La passion Béatrice (ribattezzato in Italia Quarto comandamento) viene accolto in maniera contrastante.
«Non ho paura dell’inferno, ci viviamo già»: questa replica di un guerriero del XII secolo (La passion Béatrice) introduce al clima apocalittico de La vie et rien d’autre (1989), «un film epico-ironico d’amore su uno sfondo di orrore e di morte, l’immane spreco di vite umane della prima guerra mondiale». Come in Coup de torchon, Philippe Noiret ci regala qui uno dei personaggi più ricchi e umani della sua carriera, un eroe moderno alla Ford deciso ad andare fino in fondo nella sua missione umanitaria (censire tutti i cadaveri rimasti sepolti sui campi di battaglia) e che alla fine riscopre in sé la facoltà di amare. Un film sull’amore (di una figlia per il padre minato dalla malattia) è anche Daddy nostalgie (1990), delicata elegia familiare sul tempo che passa inesorabilmente, sulle difficoltà dei rapporti anche fra persone vicine.
Dopo questa riuscita incursione nell’intimismo, Tavernier da buon eclettico (una qualità che oggi sono in pochi ad avere) nel 1991 torna a proiettarsi con passione e indignazione nella bruciante realtà sociale e politica del nostro tempo: La guerre sans nom, quattro ore di interviste a una trentina di ex combattenti – senza nome – d’Algeria, è un film documento onesto, lucido, coraggioso, memorabile. L. 627 è una cronaca virulenta dell’inferno quotidiano di un reparto speciale antidroga che ha fatto molto scalpore in Francia.
Tra il 1993 e il 1994 Tavernier gira, uno dopo l’altro, La fille de D’Artagnan e L’appât. Il primo (un’eredità di Riccardo Freda che doveva dirigerlo dopo averlo scritto insieme a Jean Cosmos) è una libera variazione sui racconti e i personaggi di Dumas, che rinnova la tradizione del cinema di cappa e spada in cui tutto è fantasia, avventura, azione, ritmo. L’appât (Orso d’oro al festival di Berlino, titolo italiano L’esca) mostra un gruppo di giovani rintronati dalla televisione che progettano una serie di furti e assassini ma che, tragicamente, si rivelano dei dilettanti.
Altro salto di epoche, temi e stile: ambientato nella Romania del 1918-19, Capitaine Conan (1996) ha come protagonista un militare che è anche uno dei primi antieroi della letteratura francese. Il film ha riscosso ovunque un grande successo ed è stato premiato dalla giuria di France Cinéma 1996 presieduta da Giuseppe De Santis con la seguente motivazione: «Emozionato ed emozionante smascheramento della stupidità e dell’orrore delle guerre, con un sottile sguardo sulla miseria dell’eroismo da cui emerge la grande cultura tradizionale della Francia ma anche la sua accesa, innovativa controcultura».
Con il documentario De l’autre côté du périph’ (1998) Tavernier (che firma la regia insieme al figlio Nils) traccia un accurato ritratto umano, sociale e politico della periferia parigina contro ogni cliché. Ça commence aujourd’hui (1999) è la storia di un coraggioso istitutore e direttore di una scuola materna di una piccola città del nord: un Diario di un maestro in versione francese. Dopo Histoires de vies brisées (2001), un documentario militante contro la legge delle “doppie condanne” per gli immigrati, Tavernier si lancia in una brillante ricostruzione del periodo dell’Occupazione: Laissez-passer (2002) fa rivivere la stagione del cinema francese sotto Pétain attraverso la figura dello sceneggiatore Jean Aurenche e del regista Jean Devaivre ai tempi della Continental (la casa di produzione tedesca con sede nella Parigi occupata). Una bella scommessa, puntualmente vinta…
Dopo un anno di riflessione, Bertrand parte per la Cambogia per girare un film sulle difficoltà dell’adozione e sul traffico dei bambini: Holy Lola (2004). Un’odissea sentimentale piena di rischi, una crudele storia vissuta da una coppia occidentale, raccontata come un romanzo.
Il prossimo film del maestro di Lione sarà un thriller ambientato in Louisiana.
Da France Cinema 06