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Rassegna stampa di Alberto Sordi

Alberto Sordi è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, musicista, è nato il 15 giugno 1920 a Roma (Italia) ed è morto il 24 febbraio 2003 all'età di 82 anni a Roma (Italia).

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Non ho rinunciato a niente, tutto quello che potevo fare l'ho fatto». Era piacevole parlare con Alberto Sordi, apprezzare il suo aspetto di prospero commendatore (Principe di Galles, cachemire, bellissime scarpe inglesi, sinfonia di marroni compreso il color mogano dei capelli accuratamente tinti), sentirlo raccontare le difficoltà degli inizi: «Ho ossessionato la gente, ho chiesto, cercato, insistito, colto tutte le occasioni, mi sono imposto con improntitudine. Nessuno ti regala mai niente: ci vuole costanza, passione, fatica, resistenza». Sapeva ancora fare benissimo la voce di Oliver Hardy con la quale aveva debuttato come doppiatore. Ricordava benissimo le difficoltà di dizione per cui gli consigliavano di cambiare mestiere («Non ce la facevo a dire ferro, carrozza, guerra; alla romana, pronunciavo fero, garozza, guera»). Rideva ancora del geniale «numero» di imitazioni ironicamente pessime del muggito bovino, dello starnazzare di gallina e del rombo d'aereo, a suo tempo accolte in teatro a Roma da sconcerto e gelida incomprensione; o delle strofette sceme ripetute quando era boy del varietà (il nome d'arte, Albert Odisor): «Pigliala allegramente/ arrabbiarsi cosa vale/ al fegato può far male/ e poi devi chiamare il dottor». Ricordava l'incanto della Mostra di Venezia dov'era arrivato nel 1942 coi I tre aquilotti di Mario Mattoli, con un personaggio di bel giovane, allievo pilota d'aviazione militare all'Accademia di Caserta: «Autografi, lusso, donne belle, credevo di sognare». Conosceva ancora a memoria certe scenette radiofoniche dei suoi programmi più fortunati, «Rosso e nero», «Oplà», «Vi parla Alberto Sordi», «Il conte Claro», di personaggi come Mario Pio, di canzoni oscillanti tra crudeltà e assurdità, «Carcerato», «Nonnetta». È degli Anni Cinquanta l'esplosione vera di Sordi: nello Sceicco bianco («una strana, amara felicità s'impadronisce di tutto il mio essere. Oh, er gabbiano...») e nei Vitelloni di Federico Fellini; in Un giorno in Pretura e Un americano a Roma di Steno, con il personaggio del ragazzo del dopoguerra infatuato dell'America; nellArte di arrangiarsi di Luigi Zampa, tratto da un racconto di Vitaliano Brancati, storia dell'arrampicatore sociale e politico voltagabbana siciliano Sasà Scimoni. Ha così inizio e dura per tutti i Sessanta, la serie dei tipi che compongono la maschera italiana di Sordi e la storia minore del Paese: Un eroe dei nostri tempi diretto da Mario Monicelli, lo scapolo, il marito, il vedovo, il seduttore, il moralista, il conte Max (chanteur, danseur mondain, habitué di nightclub). Il magliaro di Francesco Rosi emigrato in Germania, il soldato in coppia con Vittorio Gassman nella Grande guerra di Monicelli, l'ufficiale giovane nell'8 settembre 1943 in Tutti a casa di Luigi Comencini, il vigile arrogante e sconfitto, il giornalista di sinistra di Una vita difficile di Dino Risi, il mafioso, Guglielmo il Dentone diretto da Luigi Filippo d'Amico come un emblema della forza di volontà. E ancora il cinico medico della mutua dottor Guido Tersilli, personaggio sempre contemporaneo oltre trent'anni dopo che le televisioni ripresentano almeno ogni stagione; il prete povero di Contestazione generale di Zampa, il povero giocatore di carte dello Scopone scientifico di Comencini, l'infame commerciante d'armi di Finché c'è guerra c'è speranza. Aveva cominciato ad autodirigersi senza molti vantaggi, ma è di Monicelli la regia di uno dei suoi film più strazianti sulla realtà italiana, Un borghese piccolo piccolo tratto dal romanzo di Vincenzo Cerami; anche se non altrettanto forte, Tutti dentro rispecchia nel magistrato protagonista il marasma del nostro sistema giudiziario. Al di là delle truccature, la faccia di Sordi era sempre la stessa, immediatamente riconoscibile: a caratterizzare il personaggio bastavano piccoli tocchi, una pettinatura, un ciuffetto di capelli scomposti, un cappello, un make-up degli occhi, una postura della schiena o delle spalle, un passo svelto, soprattutto un talento inimitabile di comico meraviglioso. L'italiano Alberto Sordi aveva suoi tic verbali, modi di dire folgoranti, frasi ritmate, battute, un linguaggio appunto. Ad esempio, il piglio interrogativo tipico del dialetto romano, che esprime a volte l'incredulità («Che fa, marchese, spinge?», «Ma che, scherziamo?», «Ma chi sei?»); l'eloquio pomposo degli ignoranti che tentano d'apparire colti («Ecco or dunque», «Scusino il gesto infantile», «Riverisco con molta stima»); l'uso di interpellare gli altri con le definizioni di mestiere, come per confermare i ruoli, fissare le identità («Mi dici il vero, portiera?», «Vieni, intrepido bimbo», «Senta, agente dell'ordine»). È un meccanismo fantastico lo scambio, l'osmosi tra il dialetto romano e i «sordismi» più famosi che entrano a far parte di quel dialetto o degli usi linguistici nazionali e che come tali vengono assunti da altri attori comici, oppure che restano come citazione proverbiale in sé sufficiente ad evocare un clima, una situazione, un comportamento. E a riconoscere la sconfitta inevitabile, la resa al tempo che è passato: «E che dico? So' vecchio, so' vecchio, che non ce lo so?».

ROBERTO ESCOBAR
Il Sole-24 Ore

È stato l’italiano tipico, il grandissimo Alberto Sordi, O almeno lo è statonegli anni più felici d’una carriera lunga e tutta fortunata. Era l’italiano del “facciamoci riconoscere!”: chiassoso, insicuro, provinciale. Tuttavia quell’italiano ha avuto qualità umane che faremmo bene a rimpiangere. E di certo oggi rimpiangiamo la genialità con cui 1’ “Albertone nazionale” ce lo ha raccontato, qua e là addirittura creandolo.
Italiano tipico Sordi cominciò a esserlo alla radio. Il “compagnuccio della parrocchietta” conquista il Paese nel ‘48, nella trasmissione Vi parla Alberto Sordi, e solo nel ‘51, con poca fortuna di pubblico, compare nel delizioso Mamma mia, che impressione! (Roberto Savarese, sceneggiatura di Vittorio De SiCa, Cesare Zavattini e dello stesso Sordi). Era, quel compagnuccio, una strana somma di perbenismo popolare da oratorio e di snobismo microborghese, di romanescherie e di patetiche imitazioni di quelli che avevano l’aria d’essere “raffinati’ modelli linguistici e di comportamento dell’Italia settentrionale.

LUIGI PAINI
Il Sole-24 Ore

È un pezzo della mia vita che se ne va...”: un’anziana signora sull’autobus commenta così, con le parole più semplici e naturali, la notizia della morte di Alberto Sordi. E non sono affatto parole di circostanza: la stessa persona aggiunge, con struggente malinconia, alcune considerazioni di profonda stima nei confronti del grandissimo attore che ha sparso buonumore sulle nostre vite per oltre mezzo secolo.
E il bello è che questa affermazione è vera per tutti, non solo per chi si ritrova i capelli bianchi. I più avanti negli anni ricordano in primo luogo le trasmissioni -radiofoniche dell’ immediato dopoguerra, quella voce stridula che rappresentava per milioni di radioascoltatori un appuntamento imperdibile nell’Italia pre-televisiva; ma anche chi è giovanissimo, quella voce la conosce e la ama, anche se probabilmente non sa il nome del suo “proprietario”. Alberto Sordi era infatti, come è arcinoto, il doppiatore “ufficiale” di Oliver Hardy, l’amatissimo Ollio che, con il fido compagno Stanlio, ha superato il gap tra le generazioni, accomunando (com’è stato destino di un altro formidabile comico, l’eterno Totò) nonni, padri e nipoti.

ROBERTO NEPOTI
La Repubblica

Una vita in scena. È stato questo il percorso di Alberto Sordi, morto oggi a Roma per una grave malattia. Nato il 15 giugno 1920 a Roma, nel cuore di Trastevere, figlio di Pietro, concertista al Teatro dell'Opera di Roma, e di Maria, maestra elementare. Si esibisce davanti al pubblico fin da bambino, girando la penisola con la compagnia del Teatrino delle marionette. Poi canta come soprano nel coro della Cappella Sistina e a 16 anni incide un disco di fiabe per bambini.. Dopo aver abbandonato l'Istituto d'Avviamento Commerciale 'Giulio Romano' di Trastevere (si diplomerà in seguito studiando da privatista), si trasferisce a Milano per frequentare l'Accademia dei Filodrammatici. Ma a causa del suo spiccato accento romano, Sordi viene espulso dalla scuola e soltanto nel 1999 riceverà dall'Accademia un diploma honoris causa in recitazione, quasi una sorta di risarcimento. È il 1936, Sordi tenta senza successo la strada del teatro leggero, poi torna a Roma, dove partecipa come comparsa al film Scipione l'Africano. L'anno successivo vince un concorso della Metro Goldwin Mayer come doppiatore di Oliver Hardy e debutta nell'avanspettacolo proprio in qualità di imitatore di Stanlio e Ollio, con il nome d'arte di Albert Odisor. Lungo gli anni Quaranta, Alberto Sordi è impegnato soprattutto in teatro e nel doppiaggio, prestando la sua voce anche a Robert Mitchum e Anthony Quinn, nonché a Marcello Mastroianni per il film Domenica d'agosto. Il cinema gli concede solo piccoli ruoli, mentre alla radio ottiene un successo straordinario con Rosso e nero e Oplà, presentati da Corrado, e poi con il programma Vi parla Alberto Sordi. Nel 1950 ottiene finalmente un ruolo da protagonista nel film di Roberto Savarese Mamma mia, che impressione!, l'anno successivo Fellini gli regala la grande occasione con la parte dello sceicco romanesco ne Lo sceicco bianco. Nel 1953 Sordi conquista definitivamente il pubblico e la critica con I vitelloni, sempre diretto da Fellini, e con Un giorno in pretura di Steno, il film che vede nascere il personaggio di Nando Moriconi, l'americano, protagonista poi del celebre Un americano a Roma (1954). Intanto, la sua fama diventa internazionale e nel 1955 il presidente degli Stati Uniti Truman gli concede le chiavi di Kansas City e la carica di Governatore onorario della città, per la propaganda favorevole all'America promossa proprio dal personaggio di Moriconi.

EMILIANO ARRIGO
Il Secolo d’Italia

Per tutti è stato uno dei più grandi attori italiani. Per tanti era io spirito libero e “scansonato” di Roma, ma per tutti noi era e resta, semplicemente Albertone. “Romano de Roma” e attore dalle mille sfaccettature, Alberto Sordi viene raccontato dal critico cinematografico e teatrale, Goffredo Fofi nel libro Alberto Sordi - L’Italia in bianco e nero (Le Scie Mondadori, pagg. 275).
Lo scrittore nell’opera conduce il lettore lungo una galleria di ritratti di artisti come Totò, Federico Fellini, Anna Magnani, Dino Risi, Mario Monicelli e tanti altri, che hanno lavorato e conosciuto più o meno approfonditamente l’attore trasteverino.
Retroscena, curiosità e aneddoti. Ma anche politica, filmografia e un pizzico di biografia. Di tutto e di più insomma, su colui che con i tanti personaggi interpretati ci ha fatto ridere e vergognare dì fronte ai nostri difetti. Più di ogni altro attore della seconda metà dei Novecento, più di Totò e di Gassman, di Mastroianni e di Tognazzi, ci ha mostrato quello che siamo e che forse avremmo preferito non essere. Sordi con i suoi film diviene popolare senza ammiccamenti di sorta, senza quella indulgenza complice che c’è invece in tutti gli altri mattatori suoi concorrenti, i quali fanno di tutto per rendere attraenti i loro personaggi farabutti o fannulloni che siano. Lui preferisce portarli con sé, sguazzando dentro le loro debolezze senza mai volerle giustificare né fustigare.

MARCO ROMANI
Il Venerdì di Repubblica

I personaggi al cinema e le apparizioni in tv: il flop dello Sceicco bianco, il successo dei Vitelloni con Fellini, i film con Monicelli, le battute osé con Mina e la Carrà.
Un cofanetto con un dvd e un libro raccontano la straordinaria carriera di un italiano.
A invitarlo in trasmissione si correva sempre qualche rischio. La prima a farne le spese fu Mina a Studio Uno. Era il 1966, Alberto Sordi era all'apice del successo, poteva permettersi tutto, anche qualche complimento osé: «Mina, Minona fatte vede' da vicino. Sei grande, grande, ‘na fagottata de robba». La stessa sorte toccò pure a Raffaella Carrà durante Buonasera Raffaella: «Io so romano e tu sei romagnola. Sei Roma dentro e tutta gnola fori». Mina e la Carrà sul palcoscenico c'erano nate e schivarono i colpi con ironia. Eleonora Brigliadori invece non seppe dove guardare quando durante una puntata di Serata d'onoreera il 1989 - Sordi le chiese perché da Mediaset fosse passata in Rai: «Ha litigato con Berlusconi? Dica la verità,ha messo le mani addosso?».

MARIO SOLDATI

L'arte e la carriera di Alberto Sordi potrebbero essere argomento di un lungo saggio estremamente moderno e appassionante: quasi un nuovo Paradoxe sur le comédien. Ma la novità dovrebbe consistere soprattutto nel mettere in rilievo ciò che Diderot non ha detto: o che si poteva «far dire» a Diderot soltanto se lo si leggeva forzando il testo. Ed è questa, la novità: che l'attore è il simbolo più vivo dell'artista come «fenomeno psicologico». In altre parole, tutti i procedimenti, dai più semplici ai più complicati, di questo fenomeno possono essere studiati meglio nell'attore che nel poeta, nel pittore, nel musicista: per la ragione che possono essere osservati non in un oggetto in qualche modo estraneo all'artista, in una poesia, in un quadro, in una melodia, ma nella voce, nei gesti, nell'espressione, nel corpo stesso dell'artista vivente: corpo, che l'arte modifica via via per i propri scopi, e che è la materia medesima dell'arte dell'attore. Ed è chiaro che, come fenomeno da studiarsi, l'attore di cinema (non doppiato, si capisce) è assolutamente preferibile all'attore di teatro. Perché, che cos'è un attore di cinema se non un attore di teatro visto al microscopio?
Dunque, Sordi soffre, ed esemplifica in se stesso, il più moderno dei problemi dell'arte moderna: il contrasto tra tecnica e ispirazione. Da anni, noi assistevamo alle pellicole di Alberto Sordi divisi tra l'ammirazione per l'abilità dell'attore, che aveva ogni volta più del prodigioso, e una sostanziale indifferenza per il complessivo risultato artistico, che, proprio in rapporto a quei crescenti prodigi tecnici, sembrava ogni volta più modesto. «Ma è possibile», ci dicevamo, «è possibile che Sordi, coi mezzi che ha, non riesca a darci qualche cosa di più?». E sognavamo un Sordi meno locale, meno provinciale, meno romanaccio, meno italianuccio: un Sordi o comico o tragicomico o magari tragico, ma che ci desse, comunque, un'immagine umana più universale, e che riflettesse un riso e un pianto più profondi, più vicini alle vere ragioni che tutti abbiamo per ridere e per piangere.

PIER PAOLO PASOLINI

Dicono che, finora, Alberto Sordi non abbia avuto successo all'estero: può darsi che il successo venga, presto, e che questa situazione sia smentita da una inaspettata «scoperta» (e l'auguro all'attore): comunque non si può non meditare su questo fatto. Alberto Sordi è stato quest'anno al centro del cinema italiano: c'era Alberto Sordi nei Magliari, c'era Alberto Sordi nella Grande guerra, c'era Alberto Sordi nel Moralista, c'era Alberto Sordi in altri tre quattro filmetti di cassetta (vedi Costa Azzurra); in gran parte della produzione italiana c'era Alberto Sordi. E ci sarà. In questo momento la comicità nazionale coincide in gran parte con quella di Sordi. Totò e Fabrizi invecchiati e cadenti, gli altri quasi tutti fuori moda (a parte, più aristocratico, il caso di Eduardo De Filippo), è Sordi che ha il monopolio del riso. Ma all'estero non fa ridere. Bisognerà pur chiederci il perché.
Vediamo un po': in fondo il mondo della Magnani è, se non identico, simile a quello di Sordi: tutti due romani, tutti due popolani, tutti due dialettali, profondamente tinti di un modo di essere estremamente particolaristico (il modo di essere della Roma plebea ecc.). Eppure la Magnani ha avuto tanto successo, anche fuori d'Italia: il suo «particolarismo» è stato subito compreso, è diventato subito, come si usa dire, universale, patrimonio comune di infiniti pubblici. Lo sberleffo della popolana di Trastevere, la sua risata, la sua impazienza, il suo modo di alzare le spalle, il suo mettersi la mano sul collo sopra le «zinne», la sua testa «scapijata», il suo sguardo di schifo, la sua pena, la sua accoratezza: tutto è diventato assoluto, si è spogliato del colore locale ed è diventato mercé di scambio, internazionale. È qualcosa di simile a quello che succede per i canti popolari: basta trascriverli, aggiustarli un po', toglierci la selvatichezza e l'eccessivo sentore di miseria, ed eccoli pronti per lo smercio a tutte le latitudini.

News

Con Una vita difficile di Dino Risi questo giorno si insedia nella memoria dello spettatore.
Una vita difficile, del 1961, diretto da Dino Risi, racconta il 2 giugno 1946.
Silvana Giacobini è l'autrice di un romanzo che approfondisce la vita, la carriera e gli amori di Sordi.
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