paola di giuseppe
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sabato 3 luglio 2010
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un manichino al momento giusto e ciak, si gira...
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Di fronte a Glory to the filmmaker si resta per un po’ senza parole: cos’è? ci si chiede, un seppuku rituale, una coraggiosa autoaffermazione (io sono io e non il pupazzo dei critici), un gioco a cui si chiede al pubblico di partecipare senza farsi troppe domande (afferma Masayuki Mori, il produttore: “In Giappone non abbiamo avuto il successo che speravamo perché il pubblico non è riuscito ad accettare la coesistenza tra la parte seria del film e la comicità. In realtà noi abbiamo cercato di dare agli spettatori un prodotto semplice, sul quale non ci fosse il bisogno di riflettere troppo, un film divertente e leggero. Certo, non si può obbligare qualcuno a ridere e non pensare a niente. Solo le giovani donne che non avevano mai visto un film di Kitano hanno apprezzato questo lavoro.
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Di fronte a Glory to the filmmaker si resta per un po’ senza parole: cos’è? ci si chiede, un seppuku rituale, una coraggiosa autoaffermazione (io sono io e non il pupazzo dei critici), un gioco a cui si chiede al pubblico di partecipare senza farsi troppe domande (afferma Masayuki Mori, il produttore: “In Giappone non abbiamo avuto il successo che speravamo perché il pubblico non è riuscito ad accettare la coesistenza tra la parte seria del film e la comicità. In realtà noi abbiamo cercato di dare agli spettatori un prodotto semplice, sul quale non ci fosse il bisogno di riflettere troppo, un film divertente e leggero. Certo, non si può obbligare qualcuno a ridere e non pensare a niente. Solo le giovani donne che non avevano mai visto un film di Kitano hanno apprezzato questo lavoro.”).
Il particolare delle giovani donne che, sole, l’hanno apprezzato, risulta perfino più divertente del film stesso, tanto più se ricordiamo quello che dice Kitano stesso: “Nei miei film ci sono spesso delle cose che non riesco a fare bene. Le donne le tratto spesso come degli oggetti, ma chissà, magari un giorno farò un film tutto incentrato sulla figura femminile.”
Che Kitano ami spiazzare non è dunque una novità, e qui ci riesce alla grande, partendo con la cinepresa rotta nel suo cervello che i medici diagnosticano come un cancro.
Il disfacimento celebrale lo porta ad una sorta di dissociazione schizofrenica, per cui ogni volta che si profila un pericolo si sostituisce con un manichino a cui toccano urti e botte.
Il filmmaker ha bisogno di rinnovarsi, e il plot è affidato alla voce fuori campo nella prima parte (poi si perderà nel caos anche quella).
Bisogna trovare un soggetto, un genere gradito al pubblico.
Si provano numerosi incipit, a colori e in b/n, in stile Ozu o comedy anni '50, l'horror american style e il wuxia, la fantascienza e le storie d'amore.
Nessuna funziona, il pezzo finisce tra i rifiuti, si perde il filo e si comincia a divagare, insomma l’importante è ripetersi continuamente “ma non è una cosa seria!”
Beat Takeshi prende in giro sé stesso e il cinema, si destruttura (uomo/pupazzo) e destruttura il cinema, si prende il gusto di recitare qualsiasi cosa e poi butta tutto all’aria in mille pezzi, mentre l’unica recinzione a tenere insieme le membra sparse è la musica di Shinichirô Ikebe.
E’ trascinante questa specie di "cupio dissolvi", lo riconosciamo perché di questa metastasi erano densi tutti i suoi film precedenti, la sua amarezza, quella faccia immobile attraversata dal tic che gli contrae impercettibilmente la guancia destra, e sembra fare l’occhiolino.
Il suo doppio in Takeshis’ era un clown, ma umano, troppo umano.
Bisogna che diventi legno, plastica, che assorba i colpi, che non cominci a sparare come un matto facendo stragi.
Bisogna che lo spettacolo continui, The Show Must Go On! ragazzi, e Glory to the filmmaker .
C’è bisogno di dirlo ancora una volta che Kitano è un genio?
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federico pistono
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martedì 13 maggio 2008
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onestà, pasticci e follia di un regista
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Sala d'ospedale, il medico si appresta ad azionare la macchina per eseguire una tac al paziente, legato al lettino con espressione assente. Curioso notare che il paziente è un pupazzo, ovvero Takeshi Kitano versione pupazzo. Il regista nipponico ha avuto una brillante carriera nella vita, ma ormai sembra essere a corto di idee e non è altro che un pupazzo, nel quale si trasforma ogni qualvolta si trovi in una situazione di difficoltà. Rimasto senza idee alla fine della sua carriera Kitano decide di realizzare tutto ciò che gli passa per la testa, per quanto possa essere strampalato, senza sceneggiatura finita e un filo logico e senza peraltro, come prevedibile, portare a termina nulla. Si sviluppa così un blob postmoderno sulla linea della sua vita e dei suoi film, dai gangster di Hana-bi che gli hanno regalato il successo internazionale, alla superviolenza di Battle Royale (バトル・ロワイアル) fino a ciò che non è mai riuscito a realizzare, come una storia strappalacrime o un film science fiction.
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Sala d'ospedale, il medico si appresta ad azionare la macchina per eseguire una tac al paziente, legato al lettino con espressione assente. Curioso notare che il paziente è un pupazzo, ovvero Takeshi Kitano versione pupazzo. Il regista nipponico ha avuto una brillante carriera nella vita, ma ormai sembra essere a corto di idee e non è altro che un pupazzo, nel quale si trasforma ogni qualvolta si trovi in una situazione di difficoltà. Rimasto senza idee alla fine della sua carriera Kitano decide di realizzare tutto ciò che gli passa per la testa, per quanto possa essere strampalato, senza sceneggiatura finita e un filo logico e senza peraltro, come prevedibile, portare a termina nulla. Si sviluppa così un blob postmoderno sulla linea della sua vita e dei suoi film, dai gangster di Hana-bi che gli hanno regalato il successo internazionale, alla superviolenza di Battle Royale (バトル・ロワイアル) fino a ciò che non è mai riuscito a realizzare, come una storia strappalacrime o un film science fiction. Il racconto pseudo autobiografico di Kitano è inusuale, non segue una linea temporale precisa, più che altro è tematica, segue un flusso di pensieri, quasi come se fossimo catapultati nella dimensione onirica e confusa della mente di Takeshi, senza filtri né censure.
Bantoku banzai! letteralmente "che il regista possa vivere dieci mila anni (lunga vita al regista)" è un'ode al regista, al suo ruolo e alla sua difficile professione nello sviluppo degli anni. L'omaggio non si riduce alla figura di Kitano in se, bensì si rivolge alla figura del regista in senso lato, a tutti coloro che lo hanno influenzato e che ha ammirato nella sua vita professionale. Si possono contare innumerevoli rimandi multiforme e multicolore ai grandi del passato, cinema Horror americano, epiche immagini alla Ninja Scroll, Ozu, Wenders, fantasmi giapponesi e naturalmente se stesso: basti pensare a Zatoichi (座頭市), L'estate di Kukijiro e ai suoi assurdi programmi televisivi (quelli di Mai dire banzai!, per intenderci), il tutto in chiave squisitamente comica. Le parti più divertenti, e intendo davvero divertenti, quelle che gli hanno fatto valere gli applausi in sala durante la proiezione e la standing ovation al termine, sono le scene Chapliane sul tatami di una palestra di Karate e la splendida scena della metropolitana (non voglio rovinarvela, davvero troppo spassosa).
Impossibile non citare l'influenza trash, i culti orgiastici con falli giganti di gomma rossa al ritmo di riff heavy metal pesantissimi, gli effetti speciali "davvero speciali", quasi Ed-Woodiani, sempre voluti e esilaranti. Infatti il team di Kitano da sfoggio di grande abilità nel CG durante le prime scene science fiction, si capisce quindi che gli orribili tagli con operatori e stuntman visibili alla telecamera sono voluti e ben ricercati, sempre con un senso artistico e storico.
Pazzo, non lineare, onirico, colorato e senza senso, almeno apparentemente, Kantoku banzai! non è solo un'accozzaglia di spezzoni tagliati e cuciti insieme, alla fine prende finalmente forma il senso dell'opera, guidata da un filo non così confusionario come si potesse pensare, il Gillianismo finale resta una chicca per i più accorti. Definito dal regista un "suicidio artistico" il film è piuttosto uno stupro artistico, visionario e sincero. Certo non la sua opera migliore, ma sicuramente un gesto apprezzabile, onesto, un regista che riconosce il suo periodo di crisi e lo mette a nudo, senza paura, uscendone dignitosamente.
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giuseppe marino
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venerdì 8 febbraio 2008
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takeshi, senza cinema
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Se ne possono dire cose opposte, stimarlo per il coraggio o detestarlo per la presunzione, entrambe le reazioni sarebbero giustificate. Ed in realtà coesistono.
L'operazione ha molto in comune con Takeshis', ma se il (meta)film del 2005 era prettamente autoreferenziale, stavolta si gioca sui generi, e la ricerca sconclusionata di un copione che sia gradevole al pubblico è esplicitata da una voce over. Nella prima metà vengono accennati una decina di incipit differenti: stile Ozu, in b/n, l'horror che piace tanto rifare agli americani, la fantascienza, il film anni '50, il wuxia, svariate storie d'amore, tutte troncate da riflessioni secche sull'inadeguatezza del progetto o da inattese divagazioni.
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Se ne possono dire cose opposte, stimarlo per il coraggio o detestarlo per la presunzione, entrambe le reazioni sarebbero giustificate. Ed in realtà coesistono.
L'operazione ha molto in comune con Takeshis', ma se il (meta)film del 2005 era prettamente autoreferenziale, stavolta si gioca sui generi, e la ricerca sconclusionata di un copione che sia gradevole al pubblico è esplicitata da una voce over. Nella prima metà vengono accennati una decina di incipit differenti: stile Ozu, in b/n, l'horror che piace tanto rifare agli americani, la fantascienza, il film anni '50, il wuxia, svariate storie d'amore, tutte troncate da riflessioni secche sull'inadeguatezza del progetto o da inattese divagazioni. Kitano ha fatto tutto, ha detto di non voler più girare film yakuza, e quello che vuole mettere in scena è solo la sua confusione. Prendendoci e prendendosi spietatamente in giro. Nella seconda parte si assesta su un plot ancora più lunatico, molto alla Getting Any, e in generale molto televisivo.
Credo sia l'unico suicidio cinematografico perfettamente consapevole e ricercato. E riuscito, dal momento che il film, oltre che in Giappone, è stato visto solo in una manciata di festival. Se Takeshis' ha per la massima parte una regia paragonabile alle opere precedenti (ed ha una vena amara), Kantoku è spesso buttato lì come viene (ed è in toto un film demenziale). Ed alcune gag sono davvero agghiaccianti, su tutte un pupazzo-Zidane che abbatte i suoi nemici a testate. Cose così in Italia a Natale ne piovono.
Eppure.
Eppure l'ossessione e la sincerità con cui quest'uomo si fa del male ha qualcosa di terribilmente poetico e affascinante. L'amarezza è propria del film nella sua esistenza, quella di un amico che fa seppuku, facendo realmente del male alla parte di lui che ti è dato conoscere. Si autodiagnostica un totale disfacimento celebrale, ma ogni volta che si trova in una situazione pericolosa si sostituisce con un manichino, oggetto di angherie ed incline al suicidio. E' sostanzialmente inattaccabile. E poi "Beat" Takeshi ogni tanto ti guarda in camera e ti fa l'occhiolino, a te che hai visto e rivisto Hana-bi ed hai creduto nell'onnisciente Zatoichi. Che erano, però, Kitano che faceva cinema. GLORY TO THE FILMMAKER!, qui c'è solo Kitano.
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