
La storia tibetana di Jetsun Milarepa assume la struttura narrativa di una fiaba ambientata in un futuro non troppo lontano. Da domani al cinema.
di Giancarlo Zappoli
Questa riflessione sul film su un futuro non troppo lontano in cui l’umanità è tornata a fare sintesi sul bene e sul male, riappropriandosi di culti e credenze, può assumere la struttura narrativa di una fiaba. Quindi…
C’era una volta Jetsun Milarepa, la storia della cui vita è importante per la cultura tibetana ed è stata raccontata nell’opera di Tsangnyön Heruka vissuto tra il XV e il XVI secolo. Viene tuttora tramandata per via orale e di lui si conserva come reliquia il cappotto fatto di pelle d’orso.
La sua biografia ci dice che, nato da famiglia agiata, alla morte del padre venne spogliato di tutto dagli zii. La madre gli chiese allora di studiare la magia nera per procurarsi la vendetta. Riuscito nell’intento sentì però poi il bisogno di purificarsi e alla scuola del maestro buddhista Marpa, dopo essere stato sottoposto ad estenuanti prove che ne purificassero l’anima, arrivò all’illuminazione.
La sua biografia ripercorre di fatto alcune delle tappe della vita del Buddha trasferendole nella cultura tibetana e descrivendo quindi Milarepa come un Buddha tibetano nato e cresciuto sul territorio senza avere alcun contatto con l’India.
C’era una volta (anno 1974) Liliana Cavani che diresse Milarepa avendo come interpreti Paolo Bonacelli e Marisa Fabbri mettendo in parallelo la vita del protagonista con quella di un giovane di oggi alla ricerca di risposte alla propria esistenza oltre che sul rapporto tra l’uomo e la donna. Leo, studente appartenente a una famiglia di operai ha studiato la vita di Milarepa e, in seguito ad un incidente stradale in attesa dei soccorsi la racconta al suo professore che avrebbe dovuto partire per il Tibet. I personaggi del passato avranno i volti di chi si trova nel presente con un continuo raffronto tra i due piani temporali.
C’era una volta (2006) Neten Chokling che, nato in Bhutan, diresse Milarepa narrandone la vita da un punto di vista estremamente particolare. Perché Neten Chokling è stato riconosciuto come reincarnazione di Neten Chokling Pema Gyurme e dall’età di quattro anni è tato accolto in un monastero. La sua quindi è una lettura dall’interno della cultura non tibetana ma sicuramente buddhista con tutte le implicazioni e i rimandi che questa collocazione comporta.
C’è ora questo film di Louis Nero che, con il coraggio di chi non teme gli strali della critica, torna ad affrontare il personaggio inserendolo in una dimensione che vuole essere totalmente personale (come peraltro è sempre accaduto nelle sue opere che nascono ogni volta da una spinta interiore). Lo fa con una struttura narrativa lineare su cui interviene proponendo variazioni rischiose (poteva essere altrimenti?) ma non prive di senso. Innanzitutto lo spostamento in un futuro in cui la tecnologia è stata sconfitta, la natura ha ripreso il dominio e l’umanità che è sopravvissuta si è riaggregata in tribù e villaggi in cui le credenze sulla magia e la stregoneria sono tornate a trovare spazio. Gli oggetti, i tatuaggi, gli stessi ornamenti maschili o femminili hanno spesso una funzione evocativa.
In questa collocazione temporale Nero affronta Milarepa andando alla radice del suo nome: Mila. Decide quindi di leggerlo e rappresentarlo non come un uomo ma come una giovane donna. Così facendo amplifica la carica e il peso del duplice percorso di trasformazione. È una figlia e non un figlio a ricevere, da parte della madre, il mandato di vendetta nei confronti degli zii predatori. Questo comporta di conseguenza la pesante accusa di stregoneria. Ma non solo. Mila, sia per acquisire le competenze della magia nera che per poi purificarsi e ascendere all’illuminazione lo farà da donna costretta a fingersi uomo. Tutto ciò in una cultura (sia essa quella di un immaginario futuro oppure della religione a cui si fa riferimento) rigidamente maschilista. L’idea portante si rivela quindi originale in un film che rimanda ad altro cinema postapocalittico riuscendo però a dissimulare l’assenza di budget a livello d’oltreoceano grazie ad accorgimenti vari.
La presenza di attori che non sono più sulla cresta dell’onda non depone poi a sfavore di Nero. Il fatto che Harvey Keitel, Franco Nero, Angela Molina o F. Murray Abraham ora lavorino molto meno, nulla toglie alle loro carriere e alla qualità delle loro prestazioni. Anzi semmai rappresenta un indicatore di come il cinema contemporaneo sempre più spesso non sia in grado di scrivere sceneggiature che possano offrire loro lo spazio che ancora meriterebbero.