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Noah Baumbach: «È questa la vita che volevo?»

Come Jay Kelly il regista si interroga su una possibile vita alternativa che potrebbe aver vissuto. Jay Kelly, dal 5 dicembre su Netflix.
di Paola Casella

martedì 2 dicembre 2025 - Incontri

Noah Baumbach è uno degli autori indipendenti americani più affermati della sua generazione: sceneggiatore e regista, ha scritto e diretto titoli come Il calamaro e la balena, Lo stravagante mondo di Greenberg, Giovani si diventa, nonché la serie Storia di un matrimonio (guarda la video recensione). Insieme alla moglie Greta Gerwig ha scritto anche Frances Ha e Mistress America, da lui diretti, e Barbie, diretto da Gerwig. In coppia con Wes Anderson ha infine sceneggiato Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Fantastic Mr. Fox, e ora torna sui grandi schermi, e poi sulla piattaforma Netflix, con Jay Kelly, scritto insieme a Emily Mortimer (che ha un breve ruolo nel film). Il film, passato in Concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, è interpretato da George Clooney nei panni di un divo hollywoodiano in crisi esistenziale, e da Adam Sandler in quello del suo manager.

Come è stato passare dalle produzioni indipendenti a quella imponente e costosa di Jay Kelly?
Ogni film ha il suo budget e la sua dimensione: certamente non avrei potuto usare gli stessi mezzi e lo stesso tono minimalista di Il calamaro e la balena per raccontare la storia di una superstar. Ma a me piace lavorare in entrambe e condizioni: alla fine quello che conta è avere intorno la stessa squadra di collaboratori, che sono anche miei amici. 

È stato facile dirigere George Clooney in un ruolo così simile all’immagine che il pubblico ha di lui?
Sia per me che per George era importante che lui interpretasse una star del cinema dando al pubblico l’illusione superficiale che stesse semplicemente interpretando se stesso, una percezione con cui giochiamo esplicitamente sullo schermo con la frase che dice Jay: “Sai quanto è difficile interpretare se stessi?”. Ma Clooney e Kelly non sono affatto la stessa persona. Ed è bellissimo il modo in cui George ha mostrato all’inizio del film il suo charme seduttivo, ma a poco a poco ci mostra quel cambiamento interiore che porta Jay alla fine a rimanere a guardarsi intorno in mezzo a un cimitero. La sua interpretazione è nuda e infinitamente vulnerabile: non si vede spesso una star di Hollywood disposta a mostrarsi le proprie fragilità in questo modo, o anche solo mettere in evidenza a propria età reale. Credo sia una performance davvero coraggiosa.


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A sentire lui, invece, questo ruolo è stato una passeggiata….
George è molto modesto, minimizza il proprio talento di attore dando sempre il merito alla sceneggiatura, al regista, agli altri attori sul set, ma la verità è che lavora davvero sodo anche se, da vero divo del cinema, fa poi sembrare facile il risultato del suo impegno: ed è proprio ciò di cui siamo grati alle star, che sono i nostri avatar, le proiezioni di noi con cui ci possiamo identificare, e nello stesso tempo veder realizzati i nostri desideri più segreti. 

Però Jay Kelly si rivela molto umano.
Jay si confronta con le stesse domande che ci poniamo anche noi: “Sono davvero quello che credo di essere? Avrei potuto essere qualcun altro? Ho fatto le scelte giuste? È questa la vita che volevo?” E deve anche confrontarsi con l’idea della morte, perché star del calibro di Jay Kelly possono finire per credere in quell’immortalità che lo schermo garantisce loro, ma che nella realtà non esiste, per nessuno. Spero che il mio film, mentre smantella tutte le illusioni del suo protagonista, smonti anche quelle del resto di noi nel nostro confrontarci con la vita e la morte. 

Il suo film fa anche un ragionamento molto sottile su come funziona la nostra memoria.
Sì, e lo fa coincidere con il modo in cui funziona il cinema. La scena iniziale è un lungo piano sequenza attraverso un set dove c’è un grande caos che, al momento del ciak, diventa istantanea coerenza, come succede quando ci si sblocca un ricordo. Abbiamo costruito dei set speciali fianco a fianco in modo che George potesse passare dall’uno all’altro per entrare letteralmente nei suoi ricordi, senza ricorrere effetti speciali e tagli di montaggio, per far vedere come funziona la memoria, che passa con fluidità dal presente al passato, in modo molto semplice e diretto: ci sono porte della nostra mente che rimangono chiuse magari per decenni e poi improvvisamente si schiudono senza sforzo, e tu ti ritrovi lì, dentro un momento della tua storia precedente. George ha potuto guardare in faccia il passato che gli si palesa davanti in continuità con il presente, ed è l’espressione del suo viso a farci condividere il suo stato d’animo nel ritrovarsi in mezzo ai suoi ricordi, perché noi spettatori li avvertiamo come una realtà filmica senza soluzione di continuità. 

Lei sembra essere un regista molto prolifico. Qual è il segreto per riuscire a scrivere, dirigere e produrre film uno dietro l’altro?
Dal mio punto di vista non sono tanto prolifico, mi ci vogliono almeno due anni per mettere insieme ogni film: devo farmi venire un’idea, poi scriverla, occupami della preproduzione, girare e montare. Per fortuna ho dei collaboratori straordinari, come in questo film i produttori David Heyman e Amy Pascal, o attori come George Clooney e Adam Sandler, che si sono fidati di me. Sono il tipo di regista che mette tutto se stesso in ogni suo film, e tutti quelli che ho girato mi rappresentano in un dato momento della mia vita. Qualche volta mi guardo indietro e penso che forse oggi non dirigerei un certo film in quel modo, o magari non lo dirigerei affatto, ma sono contento che siano tutti là, come versioni di me nel corso del tempo. Anche se, come Jay Kelly alla fine del film, mi domando se non ci sia tutta una vita alternativa che potrei aver vissuto, e che invece è andata avanti senza di me.


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