Dal caso dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte, alcuni esempi di come il cinema italiano ha portato sullo schermo alcuni dei casi di cronaca più eclatanti degli ultimi 60 anni. Dal 19 novembre al cinema.
di Simone Emiliani
È stato uno dei casi di cronaca che ha avuto una maggiore sovraesposizione mediatica degli ultimi anni. La notte tra il 5 e il 6 settembre del 2020 a Colleferro, in provincia di Roma, Willy Monteiro Duarte, un ragazzo italiano di origine capoverdiana di 21 anni, è stato brutalmente ucciso da Marco e Gabriele Bianchi per aver cercato di difendere un amico. La violenza è stata atroce e fulminea e si è consumata in appena 40 secondi. I due fratelli erano già noti alle forze dell’ordine e su di loro c’erano delle indagini da anni ma fino a quel momento non erano stati mai arrestati. Nel suo quinto lungometraggio Vincenzo Alfieri porta sullo schermo il romanzo-inchiesta scritto da Federica Angeli, giornalista di “La Repubblica” e ricostruisce quello che avvenuto 24 ore prima dell’omicidio attraverso le vicende incrociate di Willy, i fratelli Lorenzo e Federico, Maurizio e Michelle. Con un focus sulle loro storie, mostra come il male può emergere fuori anche da singoli dettagli: il desiderio di farsi accettare a tutti i costi, una frase fuori posto, uno spintone. Da una parte 40 secondi segue la linea di un cinema che mette a fuoco il fatto di come il male possa essere compiuto da persone non necessariamente malvagie ma anche comuni, magari instabili, come sottolineato da Hannah Arendt nel suo saggio "La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme" del 1963. Dall’altra il film entra invece si pone nella tradizione di film sul crimine dove a una narrazione che ricostruisce l’omicidio s’intreccia la messa a fuoco delle psicologie dei protagonisti.
Oltre 40 secondi, nel recente cinema italiano, ci sono esempi che si sono mossi su questo doppio binario. Sulla mia pelle (guarda la video recensione) di Alessio Cremonini segue uno schema simile soffermandosi sull’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi, dal 15 al 22 ottobre 2009, ricostruendo il suo calvario tra caserme dei carabinieri e ospedali dal momento in cui è stato arrestato quando è stato arrestato dopo essere stato trovato in possesso di hashish, cocaina e una pasticca di un medicinale per l'epilessia nel corso della perquisizione. Come nel caso dei protagonisti di 40 secondi, anche in quello di Stefano Cucchi (interpretato da Alessandro Borghi) in Sulla mia pelle (guarda la video recensione) la vicenda giudiziaria si sovrappone alla dimensione familiare.
La scuola cattolica, come 40 secondi, si affida a un romanzo (in questo caso quello omonimo di Edoardo Albinati) per ricostruire i fatti precedenti (e quelli immediatamente successivi) che hanno poi portato al massacro del Circeo avvenuto tra il 29 e il 30 settembre 1975 dove due ragazze, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, sono state attirate con l’inganno in una villa da tre studenti di buona famiglia (Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira) per essere poi stuprate e torturate. La prima è morta, l’altra è riuscita miracolosamente a salvarsi.
Dogman (guarda la video recensione) di Matteo Garrone è, a sua volta, liberamente ispirato al delitto del Canaro avvenuto a Roma il 18 febbraio 1988 quando Pietro De Negri, un uomo mite che aveva un negozio di toelettatura di cani in via della Magliana 253L, fa fuori l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci. Attraverso questi due personaggi, rispettivamente interpretati da Marcello Fonte (premiato al Festival di Cannes di quell’anno come migliore attore) ed Edoardo Pesce, lo stile di Garrone, rispetto ai precedenti esempi, si muove nella direzione di una potentissima dimensione onirica. Non c’è solo la secchezza, l’oggettività del racconto, ma entrano in gioco le forme più decise del cinema di genere simili a quelle di un malinconico polar alla Melville.
Infine, una delle miniserie di maggior successo di Netflix di adesso, Il mostro, riporta alla luce il caso del mostro di Firenze che tra il 1968 e il 1985 è stato l’autore di otto duplici omicidi. Le vittime erano delle giovani coppie che si appartavano in auto nei dintorni nei pressi di Firenze. Diretta da Stefano Sollima, suddivisa in quattro episodi, la miniserie ha una struttura quasi speculare al film di Alfieri e segue un filone giudiziario ben definito, quello della pista sarda; in ogni puntata c’è infatti il punto di vista di un personaggio diverso coinvolto nella vicenda. Si comincia con Stefano Mele per poi proseguire con Francesco Vinci, Giovanni Mele e Salvatore Vinci. Forse l’approccio di Sollima e Alfieri è simile: ricostruire la realtà riportando alla luce gli episodi di cronaca con un cinema che ha un impatto immediato, diretto e coinvolgente.