Vermiglio è candidato agli European Film Awards (EFA) come miglior film e miglior regia. Al cinema.
di Pedro Armocida
È veramente un po’ cittadina del modo Maura Delpero che, dalla provincia di Bolzano dove è cresciuta, si è poi spostata a Bologna, a Parigi e a Buenos Aires. Venti anni fa (ora ne ha 49) ha diretto il suo primo mediometraggio documentario, Mogli e buoi dei paesi tuoi, a cui ne sono seguiti altri tre mentre è con il lungometraggio di finzione del 2019, Maternal (guarda la video recensione), presentato al Locarno Film Festival, che è salita alla ribalta internazionale. Il suo ultimo film, Vermiglio, è stato selezionato in concorso all'81a Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia dove ha ottenuto il Gran premio della giuria ed è stato designato per rappresentare l’Italia nella categoria miglior film internazionale agli Oscar. Ancora più recente la notizia che vede Vermiglio, venduto in 61 paesi, tra le 15 opere candidate a miglior film agli European Film Awards (Efa), la cui 37a edizione si terrà a Lucerna in Svizzera il 7 dicembre, mentre Maura Delpero è entrata anche nella prestigiosa cinquina del miglior regista.
Se lo aspettava?
Ho sempre guardato agli Efa con molto interesse e sono veramente felice perché sapevo che era un anno difficilissimo. Non dico che non ci sperassimo ma abbiamo temuto di non rientrarci perché sono tanti i film che vengono votati. Comunque questo tipo di riconoscimento è bellissimo perché continua a smentire che quello che temevo, cioè di aver fatto un film troppo locale e personale, alla fine non era così.
I premi sono importanti?
Diciamo che aiutano per realizzare i film successivi con un pochino di fatica in meno. Mi è successo già con Maternal (guarda la video recensione). Il mio è un percorso lungo, ho iniziato tardi, ho dovuto lottare molto, scoprendo passo passo come funzionava l’industria anche facendo errori. Mi ricordo quando portavo i dvd all’ufficio postale per partecipare ai festival con i miei film, non sapevo nemmeno cosa fosse un venditore internazionale.
Quando è nato Vermiglio?
È una genesi che nasce dal movimento del cuore della morte di mio padre e di mia zia. Quel passaggio di vita in cui si diventa orfani. Poi la domanda decisiva se fossero fatti solo miei. Così ho fatto il gesto di iscrivermi ai laboratori internazionali, nell’ottica di far leggere la mia sceneggiatura a colleghi di tutto il mondo. Tre realtà mi hanno selezionato e ho avuto il privilegio dello sguardo del collega americano, africano, di quella bulgara. È stato un grande banco di prova che mi ha aiutato a parlare con un pubblico più ampio grazie a un film corale con tematiche universali.
Come la complessità della maternità.
Sì è una questione aggrovigliata perché non è stata molto curata negli anni e quando se ne parla tocca nervi scoperti a destra e a manca. Io non l’ho decisa a priori, ci sono arrivata per una questione di elaborazione e anche di dolore personale. Qui si rispecchia anche la mia infanzia con mia madre lasciata un po’ sola da padri sempre fuori a lavorare. Le donne, che già lavorano in casa, si ritrovavano tutta la maternità sulle loro spalle. Dopodiché, da adulta, ragiono a livello politico e ideologico e ho sentito che fosse importante mettere la complessità della maternità al centro del film.
Pensa che ci sia qualcuno a cui questo tema possa dar fastidio?
Siccome nei secoli siamo state relegata in cucina e a fare figli, ora parlare di maternità sembra quasi che, come donna, ti appiattisca. Io non penso che ci sia una vocazione e che ci sia un istinto materno ma credo però che chi vuole fare figli debba essere messa in condizione di non essere vittima di diatribe e conflitti.
Il film ci riporta alla fine della Seconda guerra mondiale e sembra di essere proprio lì anche grazie agli attori…
Ho molto lavorato per capire come creare un cast misto. Non avrei mai voluto, per i bambini e gli adolescenti e i personaggi secondari, attori che non avessero quel portato di mondanità. Il problema è stato come trovarli e poi come dirigerli per far sì che fossero famiglia perché è un film corale sulla famiglia che racconta una comunità. Poi si passa all’individualità con tutti che diventano più individui e infatti si finisce in città. Ci fa ragionare sul nostro passato recente e sulle mosse che abbiamo fatto.
So che lavora molto con gli attori.
Abbiamo passato molto tempo insieme anche per far sì che i professionisti diventassero un coro unico e quindi famiglia. Ho lavorato con tutti singolarmente con prove e incontri e con Tommaso Ragno dall’Argentina via Zoom più di un anno prima. Poi in prossimità del set ho chiesto l’attrice Alessia Barela di darmi una mano mettendo insieme le cose di famiglia, i giochi insieme come farebbe una famiglia, far dormire insieme le ragazze. Insomma un esercizio di naturalità fisica perché quando vediamo uno dei bambini fare la scena dell’orso, non solo la conosce bene perché l’ha fatta varie volte ma è entrata a far parte del suo immaginario e del suo mondo affettivo. Sono bambini con cui ti sei già scontrato, ti sei abbracciato, hai litigato una mela, le loro mamme sono diventare amiche. L’aspetto di un’altra epoca chiedeva un’esperienza immersiva totale. Tutto confluiva lì, con i tempi del film che pretendevano una certa lentezza, lì c’è tanta neve e in realtà nessuno ha fretta. Abbiamo dunque chiesto allo spettatore di cambiare frequenza.
Molto interessante anche il lavoro sul sonoro.
Abbiamo preso una serie di decisioni legate alla diegesi, abolendo la colonna sonora con la musica interna al film, o quella classica ascoltati dal padre o i cantori di Vermèil che ancora oggi senti nei bar. Sono gli stessi che nel film vediamo nel bar giocare a carte e bere spuma. Una cosa simile l’abbiamo fatta anche con i dialoghi, c’è sempre qualcuno che parla di qualcun altro. È un film di relazioni, quello che succede a me a domino tocca gli altri e complica la vita.
È anche un film sulla guerra che non è mai presente.
Per me è stato molto interessante raccontarla dal punto di vista di chi non c’è andato, di chi è rimasto, di chi ha fatto la storia ma non è finito sui libri. In questi posti isolati tu puoi stare lontano dalla guerra ma lei è sempre presente, tutti la sentono. Ma la guerra è indicibile, rimani sempre indietro rispetto alla tragedia immane. Qui c’è l’Italia rimasta a lavorare nelle cucine o nelle scuole, sono quelli che hanno costruito l’Italia che conosciamo adesso.
La grande scommessa di Vermiglio, che ha avuto anche un ottimo riscontro di pubblico nelle sale, è la proposta del dialetto.
Per me, che amo tantissimo le lingue che sono una musica e non mi piace l’omologazione, era parte integrante del film. Anche all’estero capiscono che si esprimono in un’altra maniera rispetto all’italiano e poi la verità è che l’uomo di pianura affronta la strada verso casa diversamente da quello di montagna.
Il tuo film è stato paragonato al cinema di Olmi ma perché c’è sempre questa tendenza a ridurre il lavoro di una regista?
Anni fa un grande critico disse di un mio film che era femminile ma adulto. C’è tanto lavoro da fare. Credo che ci sia sempre un bisogno di identificare e andare verso il conosciuto per garantire allo spettatore che l’esperienza che vivrà ha valore. Un po’ questo attaccarsi al passato ci limita. Io sento che c’è un modo di scrivere e di girare che ha molto anche fare con la mia identità forse anche perché non sono passata per le scuole di cinema e nessuno mi ha mai insegnato nulla. Ma io faccio tanta ricerca sul campo, magari leggo meno libri ma intervisto il contadino di 90 anni che, a sorpresa, ti racconta come anche in quel mondo, dove il pregiudizio ci ha fatto credere che non c’erano desideri e si pensava solo a vivere, capisci che i desideri c’erano eccome. Certo erano persone che lavoravano dalla mattina alla sera ma non significa che, come una delle protagoniste del film, non potessero essere prese da fiammate incontenibili. Io ho dato asilo a tutto questo.
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