Star sfolgorante degli anni Ottanta e Novanta, l'attrice è protagonista di The Substance, un’allegoria esagerata dell’ageismo femminile. Dal 30 ottobre al cinema.
di Marzia Gandolfi
Star sfolgorante degli anni Ottanta e Novanta, Demi Moore ha illuminato lo scorso maggio la Croisette di una luce particolare: quella del ritorno. È lei la protagonista di The Substance, un’allegoria esagerata dell’ageismo femminile e della misoginia interiorizzata firmata da Coralie Fargeat, già impressionante nel sovversivo Revenge, che derealizzava il mondo per trasformarlo in un terreno di gioco. Con le sue esplosioni di gore e i suoi momenti oltraggiosi e disinibiti, The Substance è pensato per stupire e indignare in egual misura.
Se il piatto è servito freddo, a incarnarlo con scaldamuscoli e body sgambatissimo è Elisabeth Sparkle (Demi Moore), diva dismessa che conduce un popolare programma di aerobica. Il giorno del suo 50° compleanno, il suo ripugnante capo la licenzia senza mezzi termini. La ragione è crudele: lui, il pubblico, il mondo intero, tutti vogliono una conduttrice più giovane, più bella, più sexy... La brutalità del congedo e un incidente la conducono dove non avrebbe mai pensato. Allontanata dalla sola fiamma che la fa bruciare, è pronta a tutto per riprendersi quello che era suo. Alla faccia del boss, del patriarcato e delle nuove ninfette che scalpitano per sculettare in TV. Infilato un cappotto giallo fiele pesca il segreto dell’eterna giovinezza.
Il destino di Elisabeth Sparkle sembra chiosare la carriera della sua interprete: l’attrice più pagata della prima metà degli anni Novanta. Demi Moore, che interpreta una donna che rifiuta di invecchiare, è stata “spremuta” da Hollywood fino all’alba dei suoi quarant’anni. Poi la storia è nota. La sua presenza dona per questo al film una dimensione “meta”. Gloria Swanson sul viale del tramonto, la star di Ghost o Proposta indecente, di Codice d’onore o di Rivelazioni, non rompe la sua immagine, la polverizza. Come Coralie Fargeat, Demi Moore va fino in fondo, con aplomb e autoironia. Con generosità e abbandono, soprattutto, dato il controllo assoluto che ha sempre mantenuto sulla sua immagine pubblica.
Nell’horror femminista dell’autrice francese, l’attrice si lascia riprendere da ogni angolazione e in modi non necessariamente lusinghieri, ma sempre rivelatori della violenza che dobbiamo sopportare come donne. La regista le chiede di essere vulnerabile e di esporsi, fisicamente ed emozionalmente. Demi Moore accetta la sfida e rintraccia in filigrana una carriera che debutta negli anni Ottanta ma esplode nel decennio successivo con Ghost, imponendola come uno dei volti faro di Hollywood. Proposta indecente e Rivelazioni faranno il resto.
Se al cinema incarna le ossessioni del patriarcato sotto parvenze ammalianti, ‘puttana’ per Redford, femme fatale per Douglas, vittima sacrificale per un mondo di uomini (Margin Call), nella vita sposa Bruce Willis e forma con lui una delle coppie culto di Hollywood. Insieme avranno tre figlie e resteranno vicini malgrado il divorzio. In salute e in malattia, uniti per sempre. Negli anni 2000 la sua aura si indebolisce sullo schermo ma nella vita l’attrice fa ancora parlare di lei. Demi Moore ha un nuovo amore, Ashton Kutcher. Quindici anni li separano ma una sequenza in bikini e tavola da surf (Charlie’s Angels – Più che mai) accorcia lo scarto e mostra una silhouette dorata e sublime. Con buona pace dei rumors e della chirurgia estetica. L’attrice nega e passa oltre ma l’episodio fa eco al suo nuovo film e a una donna di spettacolo che ricorre a un misterioso programma per ottenere una versione migliore di sé.
Nella vita come nella fiction, Demi Moore sfida le regole e le ingiunzioni della società dello spettacolo, sfilando a sessant’anni in nuance corallo e braccia toniche per Fendi o mantenendo i suoi capelli più lunghi che mai, ben lontana da quel taglio à la garçonne per cui Patrick Swayze non si rassegnava a morire (Ghost) e un’intera generazione di donne impugnava le forbici. Dopo quindici anni di carriera in sordina, Demi More torna alla ribalta, spogliandosi e mostrando i segni del tempo su un corpo che fu di giada. Con Coralie Fargeat trova un terzo atto di grazia, non capitava da Margin Call (2011), e una proposta che la porta lontana, molto lontana dalla sua zona di comfort, flagellando a colpi di aerobica il sistema maschilista tossico responsabile della deriva mentale della sua Elisabeth.
The Substance conferma il credo di una carriera incentrata sull’avventura del femminile, dal piacere all’abuso, la dittatura della giovinezza eterna imposta da sempre alle donne. Nel film, body horror di auto-interventi chirurgici e viscerali, il mondo è ridotto alle dimensioni dei glutei perfetti di Margaret Qualley, versione più fresca di Demi Moore. Quando una è attiva, l’altra cade in uno stato letargico. La trama è una folle esposizione delle sofferenze patite da una cinquantenne per poterli toccare di nuovo e ritrovarli nello specchio. Il ruolo della vecchia gloria di Hollywood marca la sua filmografia e risuona con la sua traiettoria di star obsoleta negli anni 2000. A suo modo e alla maniera della sua Elisabeth, Demi Moore fa il lutto degli anni da sex-symbol e firma un patto faustiano che vampirizza la bellezza del corpo del suo doppio, alimentato della sua esperienza.
Sotto le oltranze sadiche incredibilmente indossate da Demi Moore per giocare il suo invecchiamento, cova un film revange lanciato contro la discriminazione fondata sull’età. Una battaglia di lunga data affrontata dalle attrici, che spesso vengono scartate per dei ruoli non appena superano la soglia dei 40 anni. Fortunatamente, diversi anni dopo, Demi Moore, capelli d’ebano, sguardo menta e largo sorriso, è ancora una figura chiave del cinema hollywoodiano. Il “wow” in persona dell’ultima edizione di Cannes. Perché quando si tratta di dimostrare che a 61 anni è sempre splendida, Moore non fa le cose a metà.
Patrick Swayze, jeans e torso nudo, arriva alle spalle di Demi Moore, camicia bianca e gambe nude. Sono le due del mattino e lei sta modellando un vaso sul tornio. Lui si accomoda dietro di lei, la circonda e le loro mani si intrecciano nell’argilla e sulle note di "Unchained Melody", versione Righteous Brothers. Poi un languido ballo lento prima di ricadere sul divano e incarnare la scena cult del cinema sensuale-romantico. Incollati al busto di Swayze, gli occhi verdi e pieni di lacrime di Demi Moore sono ancora, a distanza di anni, l’epitome del romanticismo. Difficile immaginare Ghost senza di lei e quell’incantevole taglio da ragazzo. Per il ruolo, Demi Moore deve affrontare una concorrenza agguerrita (Madonna, Nicole Kidman…), ma alla fine la spunta per quel suo dono di piangere a comando. Il ruolo di Molly Jensen, fidanzatina in lutto per la morte prematura del suo amore, un fantasma condannato a vagare tra due mondi, la farà accedere nel 1990 al rango di attrice strapagata.
David (Woody Harrelson) e Diana (Demi Moore) hanno fatto fortuna nel settore immobiliare. Ma la recessione colpisce duro la coppia. Sull’orlo della rovina si giocano la vita a Las Vegas e perdono quel poco che gli resta. Sarà John Gage (Robert Redford), un miliardario sfacciato, invaghito di Diana, a sollevarli dalla rovina. Un milione di dollari per una notte di sesso con lei. David è perplesso, Diana è tentata... L’amore ai tempi della recessione per Adrian Lyne che firma un nuovo capitolo della sua cronaca economico-sentimentale (Flashdance, 9 settimane e mezzo, Attrazione fatale…) e arruola Demi Moore per stordire Robert Redford e fare impazzire Woody Harrelson. Morbida e seducente ci fa dimenticare che stiamo assistendo all’ennesima variazione del triangolo: pappone, malafemmina e cliente. Una volta consumato l’accordo, non si tratta come in Attrazione fatale di eliminare l’intruso venuto a distruggere la coppia, lo status di Robert Redford non lo permette. Il film finisce nel modo di una commedia sentimentale. Sul ponte del primo incontro con David, la “ragazza da un milione” di dollari non è mai stata così bella.
Suscita curiosità nel 1995 Demi Moore nei panni di una puritana del XVII secolo con in testa una cuffietta di pizzo e nel cuore il reverendo di Gary Oldman, versione post-Stoker e carisma animale. Amore impossibile per loro nell’America quacchera scossa dalla loro relazione. Lei ha un marito da dimenticare, lui una chiesa da conservare. Demi Moore contiene a fatica la sua gravità fisica e la vertiginosa chioma corvina che fa da sempre il suo fascino. Anche oggi, a dispetto dei diktat di bellezza imposti dalla società, che vorrebbe dare un taglio ai capelli lunghi quando le donne invecchiano. Regole che non hanno alcun senso o giustificazione reale, ‘lettere scarlatte’ imposte sul corpo femminile con qualsiasi pretesto. Sullo sfondo di superbi paesaggi e di una storia di carne e peccato, gli indiani muoiono per mano e spada dei coloni bigotti. A contare è solo Demi Moore, selvaggia e florida come l’America di fine ‘600.
Demi Moore accantona qualche volta la (buona) carriera di attrice a favore di quella di super star. Striptease lo conferma. Adattamento del romanzo di Carl Hiaasen, che mescola spogliarello, politica e corruzione in Florida, il film trova tutto il suo interesse nella sua eroina, segretaria dell’FBI licenziata a causa del marito e riconvertita in spogliarellista per ottenere di nuovo la custodia della figlia. Tra le luci al neon rosa Schiaparelli e i retroscena degli strip-club, la volontà di Demi Moore è quella di interpretare soprattutto eroine coraggiose e positive, in crinolina o senza veli, poco importa. Il suo compenso è da capogiro, 12 milioni di dollari per rivelare un corpo impeccabile dietro la frangia e dentro un bikini gold che lascia davvero poco all’immaginazione. Dieci anni dopo Kim Basinger, Demi Moore è al top della sua carriera e la sfida sul suo stesso terreno, lo striptease torrido. Purtroppo il film vale all’attrice un Razzie Awards per la peggiore interpretazione e una traversata nel deserto prima che Coralie Fargeat le offra il ruolo della vita.
Rasata a zero Demi Moore fa tutto. Nel fango, nell’acqua, nella sabbia, di giorno e di notte, striscia, si contorce, si trascina, si solleva, fa flessioni (su un braccio solo)… Tre quarti di Soldato Jane sono dedicati agli esercizi. Una palestra intensiva? No, l’allenamento speciale di un corpo d’élite dell’esercito americano. Una prova di forza per il tenente Jordan O’Neil che non vuole trattamenti di favore e vuole soltanto chiudere la bocca ai sessisti, che si sa, non si arrendono mai. Per dimostrare che una donna può fare come un uomo, per dimostrare che una donna può “farcela” come un uomo. L’istruttore di turno, sadico al punto giusto, le darà del filo da torcere, almeno fino alla trincea. Girato nello stesso anno di Striptease, Soldato Jane arruola una Demi Moore aggressivamente ostinata per indicare una corretta virilità e alimentare l’ipotesi che Jordan O’Neil, eterosessuale nella vita civile, contempli l’omosessualità marziale. Diversi bicchieri di birra virili dopo, il soldato Jane esalta la virtù della resistenza militare. Fortunatamente oggi chiediamo diritti o parità diversi da quelli di fare la guerra.