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clara stroppiana
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lunedì 16 giugno 2025
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"se io sar? un dio"
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San Damiano. Un film documentario coraggioso che costringe a spingere lo sguardo oltre quei muri metaforici eretti a difesa delle nostre traballanti sicurezze, del nostro precario benessere.
Roma. Stazione Termini. Gente che parte. Gente che arriva. Siamo tutti passeggeri in transito aggrappati ai nostri trolley. Gli occhi guardano in alto il tabellone degli orari dei treni, cercano un binario, un taxi, un autobus, una metro. Una direzione che porti lontano da lì.
“Loro” invece stanno. In basso. Una popolazione di residenti sui marciapiedi, addossati a un riparo tra un materasso e un tappeto di cartoni. “Sembrano mucchi di stracci sporchi” pensa chi passa tenendosi distante, ma basta evitare di guardarli per cancellarli dalla coscienza.
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San Damiano. Un film documentario coraggioso che costringe a spingere lo sguardo oltre quei muri metaforici eretti a difesa delle nostre traballanti sicurezze, del nostro precario benessere.
Roma. Stazione Termini. Gente che parte. Gente che arriva. Siamo tutti passeggeri in transito aggrappati ai nostri trolley. Gli occhi guardano in alto il tabellone degli orari dei treni, cercano un binario, un taxi, un autobus, una metro. Una direzione che porti lontano da lì.
“Loro” invece stanno. In basso. Una popolazione di residenti sui marciapiedi, addossati a un riparo tra un materasso e un tappeto di cartoni. “Sembrano mucchi di stracci sporchi” pensa chi passa tenendosi distante, ma basta evitare di guardarli per cancellarli dalla coscienza. Ritorna la percezione infantile della non esistenza del non visto, ma la nostra non è più l’età dell’innocenza.
Grazie al lavoro di Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes, quegli “ stracci” hanno potuto gridare con una forza, una violenza spesso, che irrompono dallo schermo. Hanno mostrato alla cinepresa i primi piani dei loro volti e dei corpi, i loro gesti ora provocatòri, ora disperati. Hanno espresso emozioni e desideri ora con tenerezza quasi lirica, ora ringhiando rabbia e ferocia. Il montaggio che opera tagli necessari alla gran quantità di girato, non sembra muoversi sulla lama della censura né sulla ricerca estetica del bello nel brutto, anzi non evita la ripresa di situazioni repulsive, perché il racconto è affidato alle immagini senza prese di posizione né giudizi. Senza le spiegazioni dell’analista di turno. Nessuno che metta in fila dei numeri e sposti i marginali dallo stato di invisibili a quello di dato statistico. Umanità e vicinanza emotiva guidano la mano della regia.
Come spesso accade nella vita, ci sono incontri che imprimono una svolta. Per i due registi la “svolta” al loro progetto di un corto, è rappresentata da Damian. Dopo più di un anno di lavoro come volontari nella Comunità di Sant’ Egidio, si imbattono in questo trentacinquenne appena arrivato dalla Polonia che non si è accontentato di un angolo rimediato sul marciapiede, ma si è sistemato nel punto più alto, in quella che chiama la “torre” sulle mura che segnano gli antichi confini della città, vestigia di un grande impero. Il corto diventa un film e Damian diventa Damiano, personaggio principale con una “partecipazione straordinaria” alla sceneggiatura. Alcuni video girati da lui con il telefonino trovano una collocazione nell’opera, a tratti abbiamo l’impressione che siano le sue richieste a indirizzare le riprese. Ama mostrarsi, raccontarsi. Come gli altri periferici della nostra società chiede ascolto e approfitta delle luci della ribalta per uscire dal buio dell’invisibilità mostrandosi dio e diavolo tra continui conflitti e lacerazioni, deliri e riflessioni filosofiche perché, come dicono i versi di Alda Merini che aprono il film, “il tormento è una voce” e “il dolore canta”. Una struggimento sottolineato dalla musica di Damiano Colosimo che dà alla storia il respiro del fato che alita sulle tragedie antiche mentre la dicotomia che agita Damiano è già nel titolo del primo brano: Un Dio o un Diavolo.
Man mano che la narrazione procede i registi ci fanno conoscere altri personaggi tutti in qualche modo in rapporto con il protagonista. Così dal mucchio indistinto e collettivo, dalla corte dei miracoli dello stereotipo e dello stigma (barboni, senzatetto, emarginati, vagabondi, straccioni) escono le unicità di Sofia, Alessio, Cristopher, Dorota, Felice… ognuno diverso e unico, ognuno singolare nel plurale.
Poi la scena torna a Damien Bielicki, che sogna di fare il cantante e chiude il film con una sua composizione dal titolo emblematico: Niente.
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silviacorte
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martedì 20 maggio 2025
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miseria travestita da arthouse
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ll plot – Damian, trentacinquenne polacco che si arrampica su una torre delle Mura Aureliane per sfuggire alla galassia di cartoni umidi che circonda Roma Termini – potrebbe regalare la denuncia sociale che strizza (giustamente) l’occhio alle coscienze. Invece no. Gli autori, dopo un anno di volontariato con la Comunità di Sant’Egidio, scelgono la via del “mostriamo tutto, capitevelo da soli”. Peccato che, oltre all’indignazione per questa trovata commerciale, scatti un titanico sbadiglio.
E qui siamo al cuore del problema: la pellicola pretende di essere arte tout court, ma resta a metà strada – come Damian: né dio né diavolo- né reportage né cinema.
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ll plot – Damian, trentacinquenne polacco che si arrampica su una torre delle Mura Aureliane per sfuggire alla galassia di cartoni umidi che circonda Roma Termini – potrebbe regalare la denuncia sociale che strizza (giustamente) l’occhio alle coscienze. Invece no. Gli autori, dopo un anno di volontariato con la Comunità di Sant’Egidio, scelgono la via del “mostriamo tutto, capitevelo da soli”. Peccato che, oltre all’indignazione per questa trovata commerciale, scatti un titanico sbadiglio.
E qui siamo al cuore del problema: la pellicola pretende di essere arte tout court, ma resta a metà strada – come Damian: né dio né diavolo- né reportage né cinema. Manca la tesi, manca la sintesi, manca pure l’antitesi; resta un lungo piano-sequenza di buone intenzioni che scivola nel calligrafismo da festival, quello in cui il dolly ha più personalità del protagonista. Non c’è denuncia sociale, non c’è presa di posizione, non c’è neppure l’ombra di un tema che giustifichi la passerella di dolore in 35 mm. Ci viene servita la solita pietanza autoriale, con la scusa che “l’arte non deve spiegarsi”. Be’, se non deve spiegarsi almeno ci intrattenga – o, in alternativa, duri la metà.
Spettacolarizzare la disperazione altrui per imbellettarsi di “impegno” è un gioco pericoloso: finisce che applaudiamo la macchina da presa e dimentichiamo i protagonisti in carne, ossa e lacrime. Al netto di qualche strategico ralenti e di un violino in minore, la sofferenza diventa oggetto da vetrina, come quei peluche a forma di unicorno venduti per beneficenza ma prodotti in fabbriche dove gli unicorni – se esistessero – sciopererebbero.
L’operazione “ti porto al centro del dramma e ci metto pure il violino” funziona finché non ci si accorge che la sofferenza, per vibrare, va ascoltata – non decorata. Qui si rasenta la guida Michelin del disagio: inquadrature al bisturi sulla miseria, ralenti sul piscio di Damian, luci soffuse per addolcire ciò che soffice non è. Risultato: pietas incartata come un macaron.
Insomma, San Damiano pretende d’illuminarci sui fantasmi di Termini, vorrebbe accendere una candela sugli invisibili, ma finisce per incendiare la pazienza dello spettatore. Uscendo dalla sala rimane il deprimente sospetto che a Damian servisse un medico più che un direttore della fotografia - e che a noi sarebbe bastato un cortometraggio.
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