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Klaudia Reynicke: «In Reinas ho raccontato una storia molto personale»

Al Festival La Nueva Ola la regista racconta com'è nata l'idea del film e come ha deciso di mescolare il suo privato con la Storia. Dal 15 maggio al cinema.
di Pedro Armocida

mercoledì 14 maggio 2025 - Incontri

Al cinema dal 15 maggio, arriva Reinas, terza opera di finzione, dopo Il nido e Love Me Tender di Klaudia Reynicke nata a Lima nel 1976 e cresciuta tra il Perù, la Svizzera e gli Stati Uniti. E Reinas, presentato al Sundance, miglior film della sezione Generation alla Berlinale dello scorso anno, Premio del Pubblico al Festival di Locarno, è stato presentato in questi giorni anche al festival La Nueva Ola, dove la regista ha raccontato proprio del momento prima del viaggio di sradicamento di una famiglia.

Come è nata l’idea?
Da un duplice movimento, la voglia di riconnettermi a un Paese che non conoscevo più, il Perù – perché io sono partita quando avevo 10 anni e poi sono cresciuta tra l'Europa e gli Stati Uniti (mi sento peruviana però quando mi chiedo in che misura, entro in crisi totale) –  e il desiderio di raccontare una storia ovviamente molto personale. Quella di una famiglia che, per forza, si rimette insieme prima di una grande partenza, un aspetto che ho vissuto anche io. Vedo tanti film sull’immigrazione in cui si è già partiti o si è già arrivati nel Paese di destinazione con la difficoltà di un posto che non si conosce. Io invece volevo mettere in scena quel momento psicologico del niente, del limbo, dove uno vive il suo presente pensando a un futuro che non conosce ma anche un presente, pieno di nostalgia, che è legato al passato.

La storia è ambientata negli anni ’90, è stato complicato realizzare un film in ‘costume’?
Sì perché è più costoso. Abbiamo avuto una produzione Svizzera, poi ovviamente la co-produzione peruviana perché si girava in Perù e anche la Spagna è stato molto importante anche perché, scrivendo questo film, sapevo già che volevo Susi Sánchez che è un'attrice incredibile e ha elaborato questo accento peruviano in un modo pazzesco.

A questo proposito, come sono state scoperte anche le giovani attrici?
Per la ragazza più grande avevamo fatto tantissimi casting in città diverse ma proprio non trovavo l’interprete giusta. Poi una volta ero in call con il produttore Daniel Vega, che è il fratello del cosceneggiatore Diego, e vedo passare dietro sua figlia. Gli chiedo quanti anni ha e perché non mi avesse mandato le foto. Mi risponde che ne ha 14 e che vorrebbe fare l’avvocato o il medico e non ne vuole sapere del cinema. Alla fine grazie al padre e a un’amica sono riuscita a convincere Luana. La più piccola invece, Abril Gjurinovic, l’ha trovata il casting in un centro commerciale e abbiamo poi scoperto che non abitava in Perù ma in Belgio dopo che la madre era partita durante il Covid. Un po’ la stessa storia di quella del personaggio di Lucía che ha interpretato.
 


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In foto una scena del film.

Come sei riuscita a controllare emotivamente l’aspetto autobiografico?
In effetti non è facile raccontare una storia che è molto vicina alla propria. C’è stata una prima fase della scrittura in cui ho fatto uscire tutti i ricordi e inserito tutto ciò che conosco, anche troppo. Dopo un anno ho chiamato Diego Vega, non tanto per sconnettermi dalla mia storia, perché ogni film che faccio è sempre molto legato a me, ma per permettermi di vedere il mio Paese in un'altro modo visto che lui ci ha vissuto più di me. E poi mi interessava anche il punto di vista di uno sceneggiatore maschio.

Però nel film sono le donne a prendere tutte le decisioni…
Io vengo da una famiglia così. Mia madre si è separata da mio padre quando avevo sei mesi, lui è sparito, quando avevo 5 anni è partito per gli Stati Uniti e non si è veramente mai occupato di me. Ma lei è andata avanti, come nel film. Sono cresciuta in una famiglia dove gli uomini andavano, venivano, mangiavano e poi sparivano. Ma il personaggio del padre, Carlos, è una vittima di questo tipo di situazione machista perché è un uomo che ha l’amore, ha la voglia di essere vicino alle figlie ma il fatto che non può apportare dei soldi per via del lavoro fa sì che la società lo additi e che diventi un loser. Così preferisce nascondersi, non essere parte di questa famiglia, non vedere crescere le sue bambine. E questo è una cosa molto triste anche per gli uomini.

Sullo sfondo c’è anche la storia politica e sociale del Perù.
È un film su una famiglia ambientato in un contesto in cui sono cresciuta. Racconto il sottofondo politico e sociale come se fosse un personaggio del film ma non il soggetto. La famiglia è uno specchio di questo contesto in cui il personaggio di Carlos è ingabbiato, lui neanche riesce a lasciarlo il Paese.


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