La stanza accanto

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Un film di Pedro Almodóvar. Con Tilda Swinton, Julianne Moore, John Turturro, Alessandro Nivola.
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Titolo originale The Room Next Door. Drammatico, durata 107 min. - Spagna 2024. - Warner Bros Italia uscita giovedì 5 dicembre 2024. MYMONETRO La stanza accanto * * * 1/2 - valutazione media: 3,71 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Un Almodovar che rischia molto fra morte e design Valutazione 3 stelle su cinque

di johnny1988


Feedback: 5948 | altri commenti e recensioni di johnny1988
lunedì 16 dicembre 2024

Martha e Ingrid sono due scrittrici newyorkesi coltissime e pubblicatissime. Ma mentre la prima (il cui nome non va erroneamente confuso con il significato etimologico di "morte", diffidate da certi articoli) scrive romanzi narrativi e il suo ultimo libro parla della propria difficoltà ad accettare la fine dell'esistenza, la seconda è un'affermata corrispondente di guerra che rammenta con costanza cosa abbia sempre significato nella sua professione il distacco emotivo. Il caso e la notizia tragica del cancro di Ingrid riuniscono le due vecchie amiche che decidono di comune accordo, malgrado la refrattarietà di Martha ad accettare il destino di Ingrid, di passare gli ultimi giorni insieme in una villa nel bosco lontano dalla metropoli: la "stanza accanto" è per l'appunto la camera che occuperà Martha durante il soggiorno nella dimora.

 
Sconcerta il film se si pensa che Almodòvar, che si porta a casa il Leone d'Oro, per la prima volta si cimenta in un territorio per lui poco battuto come gli Stati Uniti e l'eutanasia. Se è vero che l'autore calzadese ha già affrontato più volte il topos del caso e dell'imprevisto, ora con toni picareschi ora hitchockiani, è vero anche che entrare nel dibattutissimo e scomodo tema del suicidio "assistito" è frutto di una intraprendenza sia morale che intellettuale, per non dire politica, di un certo rilievo. E va detto che Almodòvar restituisce al pubblico una prova intrigante sia di scrittura che di pudore nel mostrare apertamente nessuna mezza verità. 
 
Ma stupisce al tempo stesso - e questo purtroppo non valorizza la pellicola, semmai, al contrario, la indebolisce - come il film si sbilanci tanto sulla figura della Swinton, secondo una logica narrativa a dire il vero scontata, quando invece il vero punto di interesse con cui il pubblico dovrebbe fare i conti sono Martha e i personaggi satelliti che accompagnano direttamente o postuma la paziente, senza che vengano sviscerati dubbi, amarezze, giudizi, retaggi culturali, né che venga mai mostrata una vacillanza nella loro coscienza, se non a parole, tutte bellissime quanto volatili e dotte, forse troppo dotte. Così come spiazza la metafora cromatica così "vitale" quanto scontata ed estetizzante: ogni inquadratura, che sia della clinica, così come degli appartamenti che della casa nella foresta, è un deliziosissimo moodboard di una rivista di interni (non è la prima volta che Almodòvar eccede nella ricerca dell'arredamento e trascura chi li abita quegli spazi).
 
Ma quello che sconvolge più di tutto è leggere i recensori più adulatori che al di là di commentare: "ogni battuta è come soppesata e ridotta all’essenziale", "evita qualsiasi concessione alla retorica e al melodramma" - come se questi critici avessero accidentalmente sbagliato sala - non si sono nemmeno accorti forse di uno dei momenti più "interessanti" di tutta l'opera. In una scena particolare si confrontano Martha e l'ex amante Damian (J.Turturro) sul pessimismo ideologico di quest'ultimo che non vede speranza in un'umanità che a lui pare votata a estinguersi grazie ai neoliberismi estremi, e tutto il dialogo avviene sulle rive di un'oasi lacustre al tavolo di un bar sciccoso dove servono dietetici aperitivi a base di fragole. Se questa vuole essere la sottilissima accusa contro le ipocrisie di classe, allora tutto il film andrebbe rivisto sotto una lettura che non può escludere il peso del denaro nell'orientamento del pensiero che della vita, sia in senso etico che concreto. Solo così infatti si potrebbe risolvere, in gran parte, il grande quesito: "Ma io la dignità di fronte alla morte la troverei anche senza i milioni sul conto corrente, sacrificando le mie aspirazioni, anche senza citare Faulkner e Joyce?". Non che questo voglia indurre a credere che per "morire" dignitosamente bisogna farlo seguendo l'umiltà "francescana", ma semmai comunque a chiedersi "cosa potrebbe preparare al meglio la mia dipartita?". Tutto il film è in effetti una preparazione, ma quanto è verosimile, quanto e per quanti ciò è possibile? È contingente la Swinton quando sospira "come mi mancherà il mio Skyline" parlando con nostalgia della parete finestrata che dà su Central Park o è volutamente naif? Sebbene, alla lontana, le due scrittrici potrebbero al tempo stesso riflettere due stati della ragione, quella emotiva (di matrice spirituale cristiana) e quella razionale (illuminista), quella occidentale e quella orientale, tuttavia il film, compreso Il finale, non risolve molto la domanda, e rimane purtroppo in superficie, malgrado la sceneggiatura così prescrittiva e serrata - con volute declinazioni che non possono non ricordare il cinema di Hitchcock (a partire dal gusto per le simmetrie così come per le musiche onnipresenti e vivide). Ma bisogna vedere se anche questa non sia una sottilissima provocazione o un estremo gesto di delicatezza da parte di Almodòvar. 
 
Bisogna avere pazienza e aspettare cosa e quanto rimarrà di questa pellicola che, checché se ne possa dire - si apre giustamente al confronto.

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stefano59 mercoledì 1 gennaio 2025
un film da leggere Valutazione 0 stelle su cinque
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50%

Il film affronta una tematica dolente e cupa - la malattia, la morte - tentando l''impresa non facile di affrontare il tema con strumenti del repertorio della satira, anche se impiegati con delicatezza. Forse un segno dei tempi in cui viviamo. Domanda (non retorica): che senso può avere che, al di là del giudizio che si può dare dell''eutanasia, questo tema venga accostato su questo registro (ammesso che si condivida che il registro è questo)?

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