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thomas
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venerdì 6 dicembre 2024
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questa volta no
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A Pedro Almodovar vogliamo un mondo di bene: nei suoi quasi cinquanta anni di attività artistica ha raccontato, come forse mai nessuno prima, storie in cui persone all'apparenza normali (quelle che trovi nella sala d'aspetto di un ufficio postale o di un medico) facevano cose “fuori di testa”. Questa volta, però, racconta la storia di una persona ricchissima che ritiene di fare una cosa tutto sommato comprensibile: togliersi la vita per non affrontare i dolori della fase terminale di un cancro. Tilda Swinton (Martha) vive infatti sola in elegantissimo loft di New York con vista mozzafiato (“Oh quanto mi mancherà questo skyline” dirà sospirando al momento di andar via) e si sceglie la location in cui morire affittando per un mese una villa tutta a vetri dal design ultramoderno con piscina ed immersa nei boschi (costo nella vita reale: non meno di 1.
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A Pedro Almodovar vogliamo un mondo di bene: nei suoi quasi cinquanta anni di attività artistica ha raccontato, come forse mai nessuno prima, storie in cui persone all'apparenza normali (quelle che trovi nella sala d'aspetto di un ufficio postale o di un medico) facevano cose “fuori di testa”. Questa volta, però, racconta la storia di una persona ricchissima che ritiene di fare una cosa tutto sommato comprensibile: togliersi la vita per non affrontare i dolori della fase terminale di un cancro. Tilda Swinton (Martha) vive infatti sola in elegantissimo loft di New York con vista mozzafiato (“Oh quanto mi mancherà questo skyline” dirà sospirando al momento di andar via) e si sceglie la location in cui morire affittando per un mese una villa tutta a vetri dal design ultramoderno con piscina ed immersa nei boschi (costo nella vita reale: non meno di 1.500 euro al giorno): praticamente una milionaria. E qui il film ha il suo primo punto di caduta, perché la storia che Almodovar ci racconta non rappresenta quello che farebbe chiunque, ma ciò che potrebbe decidere di fare il 3% della popolazione. Chiamasi “Elitismo”, che potrebbe andar bene per molti ma non per un film del grande Pedro. Che, probabilmente, ne è consapevole, visto che, ambienta la storia in una New York che farebbe la gioia di un'agenzia viaggi, tutta luci, giardini dai mille colori e panorami notturni di Manhattan. Ma New York, per chi l'ha davvero visitata, è tutt'altro che questa versione da cartolina. Una raffigurazione irreale della realtà, dunque, capace tuttavia di creare una “confezione” accattivante dei fatti raccontati. E qui c'è un altro punto di caduta, perché il tema del “fine morte” è troppo sfaccettato e non può essere trattato come un “illuminismo umanista versus oscurantismo cattolico”. Tante persone, anche al di là del proprio credo religioso scelgono di vivere fino all'ultimo lottando contro i dolori (e meritano tutto il nostro rispetto), e tante altre scelgono di morire prima che arrivino i dolori perché non vogliono o sanno di non poterli affrontare (e meritano tutto il nostro rispetto). Se la morale del film è nel fatto che “l'oscurantismo cattolico” impedisce ai secondi “la scelta”(tema fuorviante, perché il fine vita ha serie implicazioni sociali che vanno molto al di là delle convinzioni religiose), allora Almodovar ha proprio sbagliato paradigma, perché i milionari come Tilda Swinton (Martha) non hanno certo alcuna difficoltà a trovare legalmente farmaci che interrompono la vita, altro che pillole acquistate una tantum e con estrema difficoltà sul darkweb. Insomma, un film falso pervaso da un sottinteso narcisismo, tenuto su con una ridondante colonna sonora quasi ininterrotta, fastidioso sottofondo a dialoghi delle due protagoniste pressoché interminabili, che fanno impallidire per lunghezza persino quelli dei film di Godard e Rohmer. Ma quella musica suadente serve in realtà a tenere su il film, che sennò, come un budino malriuscito, rischierebbe di collassare su se stesso. Insomma “La stanza accanto” è un'idea confezionata in maniera eccelsa per renderla accattivante, ma vuota come la scatola di metallo di Dolce e Gabbana che Julianne Moore trova in un cassetto, apre, ma dentro non c'è nulla di davvero rilevante.
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francesca meneghetti
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venerdì 6 dicembre 2024
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la neve esistenziale che copre vivi e morti
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Ingrid è una scrittrice newyorkese di successo. Mentre firma le copie del suo ultimo libro sull’inaccettabilità della morte, si presenta a lei un’amica, che la informa del ricovero in ospedale di Marha per tumore. Ingrid non la vede da anni, ma non si sottrae all’invito e riprende con lei, reporter di guerra (come la nostra Oriana Fallaci) i fili di una vecchia amicizia intessuta di fitte conversazioni, anche dopo le temporanee dimissioni dall’ospedale. Sullo sfondo (o dalla grande finestra dell’appartamento di Martha, o da un parco urbano, o da altre prospettive panoramiche) la Grande Mela, con il suo skyline dinamico. La ingentilisce, come fosse lo scenario di una favola, la nevicata in rosa sui grattacieli, che ricorda a Martha il paragrafo finale dell’ultimo racconto dei Dublinesi di Joyce, The Dead (Snow was general all over Ireland…); il dettaglio serve, perché sarà richiamato alla fine.
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Ingrid è una scrittrice newyorkese di successo. Mentre firma le copie del suo ultimo libro sull’inaccettabilità della morte, si presenta a lei un’amica, che la informa del ricovero in ospedale di Marha per tumore. Ingrid non la vede da anni, ma non si sottrae all’invito e riprende con lei, reporter di guerra (come la nostra Oriana Fallaci) i fili di una vecchia amicizia intessuta di fitte conversazioni, anche dopo le temporanee dimissioni dall’ospedale. Sullo sfondo (o dalla grande finestra dell’appartamento di Martha, o da un parco urbano, o da altre prospettive panoramiche) la Grande Mela, con il suo skyline dinamico. La ingentilisce, come fosse lo scenario di una favola, la nevicata in rosa sui grattacieli, che ricorda a Martha il paragrafo finale dell’ultimo racconto dei Dublinesi di Joyce, The Dead (Snow was general all over Ireland…); il dettaglio serve, perché sarà richiamato alla fine. A un certo punto Matha, che espone le sue ragioni con lucidità e rigore logico, comunica a Ingrid la sua intenzione di porre fine alla propria vita, prima che sia la malattia a farlo (sottraendosi alla retorica del combattimento contro il male, da cui si uscirebbe sconfitti se non si è stati abbastanza guerrieri). Non teme solo le sofferenze e le invalidità fisiche, ma il deteriorarsi del suo spirito (pensiero, memoria, razionalità). Ha già pensato a procurarsi la pillola giusta nel dark web. Intende assumerla da sola, senza coinvolgere altre persone onde preservarle da conseguenze penali. Però a Ingrid chiede un grande favore: partire assieme per una vacanza, non più lunga di un mese, dove le sarà più facile staccarsi dalla vita, lontana dai ricordi della propria casa. Ingrid dovrà solo dormire nella stanza accanto e avvisare, dopo il fatto, la figlia, allontanatasi da lei molto tempo prima, e chi di dovere. Martha esita. È terrorizzata. Protesta per essere stata scelta. Ma quando scopre di essere l’ultima carta di Ingrid -le amiche più prossime hanno già rifiutato – accetta di condividere l’ultimo viaggio, che avrà come meta una villa immersa in una foresta, simile alla casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright. Pur essendo un film introspettivo e diverso dallo stile kitch del primo Almodovar, pieno di colore ed eccessi, la narrazione procede con un buon passo, senza rallentamenti o digressioni. La recitazione delle due protagoniste, Juliane Moore (Ingrid) e soprattutto Tide Swinton (Martha), dal viso spigoloso e scavato, è magnetica. Non ci sono scene strappalacrime. I dialoghi e gli atteggiamenti sono composti e asciutti, guidati dalla razionalità di Ingrid. Qualcuno ha parlato di freddezza: io direi di compostezza e dignità. Le sensibilità degli spettatori possono vibrare egualmente, anzi più a lungo, perché nella memoria si imprimono gli argomenti a sostegno dell’eutanasia. Almodovar affronta laicamente questo tema, traendo la sceneggiatura da un romanzo di Sigrid Nunez, trascorsi vent’anni da un celebre film spagnolo, Mare dentro, di Alejandro Amenàbar. In quel caso si dava molto più spazio alla battaglia legale a favore di una buona morte e il soggetto in questione era un uomo imprigionato dalla propria tetraplegia (dovuta a un incidente) da quasi trent’anni. Qui la motivazione politico-giudiziaria è sfumata e l’aver assunto per protagonista una donna, anziché un uomo, non ha accresciuto affatto una possibile enfasi emotiva. Una donna che vuole accogliere la Signora della falce bene vestita e ben truccata, con la massima dignità. Per altri aspetti – quello dell’attesa conviviale del momento “giusto” per la dipartita – ricorda un altro grande film del 2003, Le invasioni barbariche. Solo che qui i dialoghi sono più intimi e consentono di scavare più a fondo nel vissuto delle due donne, senza sovrastrutture ideologiche, ma in maniera esistenziale, molto umana. Molto efficace il richiamo a Joyce, con la neve che stende un velo bianco su tutte le cose, sui vivi e sui morti, a ricordarci il destino comune. Splendida la fotografia. Un film da vedere!
PS. unica cosa che mi ha lasciata perplessa: le didascalie in lingua italiana sugli scaffali di una biblioteca americana (chiaro che è per la versione italiana, ma mi pare inopportuno)
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[+] un altro bellissimo film di pedro almodóvar
(di antonio montefalcone)
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angelo umana
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martedì 17 dicembre 2024
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Due ex giornaliste – che sono state anche in “teatri” di guerra - si reincontrano quando una di esse sta firmando copie di un libro dopo averlo presentato a dei lettori. L'occasione è buona per ripercorrere loro momenti del passato, una mostra maggior necessità di confidarsi all'altra: un rapporto problematico con una figlia che non vede più, un “abisso di silenzio” (testuale) dalla pubertà di lei, che le rimproverava di non averle mai parlato del papà con cui fu concepita, lei che divenne mamma da quasi adolescente. Ora è pronta ad “abbandonare la festa”, a questo modo confessa il tumore che la condanna: i medici vogliono che continui a “combattere”, lei che di cure non ne vuole più.
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Due ex giornaliste – che sono state anche in “teatri” di guerra - si reincontrano quando una di esse sta firmando copie di un libro dopo averlo presentato a dei lettori. L'occasione è buona per ripercorrere loro momenti del passato, una mostra maggior necessità di confidarsi all'altra: un rapporto problematico con una figlia che non vede più, un “abisso di silenzio” (testuale) dalla pubertà di lei, che le rimproverava di non averle mai parlato del papà con cui fu concepita, lei che divenne mamma da quasi adolescente. Ora è pronta ad “abbandonare la festa”, a questo modo confessa il tumore che la condanna: i medici vogliono che continui a “combattere”, lei che di cure non ne vuole più. I corpi delle persone sono pure dei “teatri” dove i medici sperimentano la loro arte. Ma una pillola procuratasi nel “dark web” le consentirà di andarsene quando la sofferenza diverrà insopportabile.
E' un film insolito da parte del 75enne Almodovar, tratto da un romanzo di Sigrid Nunez (What are you going through), non contiene quasi alcuno dei temi che lo hanno interessato e con cui ci ha intrattenuto nella sua lunga carriera: è stato, dice un critico cinematografico, “viscerale, sfacciato, pacchiano e perfino volgare” e i suoi temi sono stati abbondantemente “su aspetti vivaci e immediati della vita: amore, sesso, desiderio, rimpianto” (appunti copiati dal testo di esperti addetti ai lavori). Da anziani succede di considerare la morte come un “avvenimento” un poco più vicino o probabile.
Ricorda una fase analoga per un'altra protagonista, quella di Plan 75, film più espressivo e toccante, di sensazioni trasmesse e sentite dallo spettatore. Questo invece è molto parlato, tra una scrittrice e una giornalista del resto c'è da aspettarsi un profluvio di parole, troppe: la morte spiegata, attesa, preparata. E anche qualcosa che c'entra poco, in un film riempito di qualche cianfrusaglia non proprio attinente: come l'amica che sta accanto alla moritura in una casa che ha preso in affitto e sfiora, ma solamente sfiora, la possibilità che un istruttore di palestra possa improvvisamente abbracciarla; o come l'inquisizione poliziesca finale che si conviene ai film americani, perché nel film siamo in America.
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cardclau
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venerdì 6 dicembre 2024
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il probema dell''uguaglianza di fronte alla morte
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Sebbene potremmo essere d’accordo che non è vero che la legge sia uguale per tutti, potremmo avere difficoltà a pensare che anche di fronte alla morte non siamo poi così tutti uguali. Ma differenziamo il momento della morte fisica, vero e proprio, da quello che lo precede, l’agonia, il dolore, lo smarrimento delle proprie facoltà, il piombare nel buio prima che sia divenuto assoluto. Soprattuto quando non avendo raggiunto i limiti dell’esistenza umana, e non essendo ancora così fragili, si potrebbe essere costretti a dover affrontare disarmati un periodo breve, sì, ma percepito sempre troppo lungo. Penso che questo sia quello che ci angoscia, e che il regista abbia avuto difficoltà a riconoscere, se non nelle tre amiche che, interpellate da Martha se la sarebbero sentita di accompagnarla, si sono rifiutate inorridite.
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Sebbene potremmo essere d’accordo che non è vero che la legge sia uguale per tutti, potremmo avere difficoltà a pensare che anche di fronte alla morte non siamo poi così tutti uguali. Ma differenziamo il momento della morte fisica, vero e proprio, da quello che lo precede, l’agonia, il dolore, lo smarrimento delle proprie facoltà, il piombare nel buio prima che sia divenuto assoluto. Soprattuto quando non avendo raggiunto i limiti dell’esistenza umana, e non essendo ancora così fragili, si potrebbe essere costretti a dover affrontare disarmati un periodo breve, sì, ma percepito sempre troppo lungo. Penso che questo sia quello che ci angoscia, e che il regista abbia avuto difficoltà a riconoscere, se non nelle tre amiche che, interpellate da Martha se la sarebbero sentita di accompagnarla, si sono rifiutate inorridite. Per cui Pedro Almódovar ha scelto di ambientare il “terribile” evento, nella New York opulenta, con due protagoniste dell’alta società le quali non solo durante la loro vita non si sono mai trovate di fronte al problema di non riuscire ad arrivare a fine mese, ma anche in grado di raggiungere una consapevolezza senza cedimenti. Martha ha potuto affittare una bellissima villa in campagna, circondata da un trionfo della natura. E Ingrid alla fine della tenzone si può permettere di avere l’assistenza di un’avvocata per essere scagionata dall’accusa di aver perpetrato un crimine. Freud nel film Freud, l’ultima analisi, non sembra mai separarsi dalla sua pillola di cianuro (secondo il regista). E François Ozon nel film Tout s'est bien passé descrive un industriale francese che si può permettere la morte assistita in Svizzera.
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johnny1988
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lunedì 16 dicembre 2024
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un almodovar che rischia molto fra morte e design
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Martha e Ingrid sono due scrittrici newyorkesi coltissime e pubblicatissime. Ma mentre la prima (il cui nome non va erroneamente confuso con il significato etimologico di "morte", diffidate da certi articoli) scrive romanzi narrativi e il suo ultimo libro parla della propria difficoltà ad accettare la fine dell'esistenza, la seconda è un'affermata corrispondente di guerra che rammenta con costanza cosa abbia sempre significato nella sua professione il distacco emotivo. Il caso e la notizia tragica del cancro di Ingrid riuniscono le due vecchie amiche che decidono di comune accordo, malgrado la refrattarietà di Martha ad accettare il destino di Ingrid, di passare gli ultimi giorni insieme in una villa nel bosco lontano dalla metropoli: la "stanza accanto" è per l'appunto la camera che occuperà Martha durante il soggiorno nella dimora.
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Martha e Ingrid sono due scrittrici newyorkesi coltissime e pubblicatissime. Ma mentre la prima (il cui nome non va erroneamente confuso con il significato etimologico di "morte", diffidate da certi articoli) scrive romanzi narrativi e il suo ultimo libro parla della propria difficoltà ad accettare la fine dell'esistenza, la seconda è un'affermata corrispondente di guerra che rammenta con costanza cosa abbia sempre significato nella sua professione il distacco emotivo. Il caso e la notizia tragica del cancro di Ingrid riuniscono le due vecchie amiche che decidono di comune accordo, malgrado la refrattarietà di Martha ad accettare il destino di Ingrid, di passare gli ultimi giorni insieme in una villa nel bosco lontano dalla metropoli: la "stanza accanto" è per l'appunto la camera che occuperà Martha durante il soggiorno nella dimora.
Sconcerta il film se si pensa che Almodòvar, che si porta a casa il Leone d'Oro, per la prima volta si cimenta in un territorio per lui poco battuto come gli Stati Uniti e l'eutanasia. Se è vero che l'autore calzadese ha già affrontato più volte il topos del caso e dell'imprevisto, ora con toni picareschi ora hitchockiani, è vero anche che entrare nel dibattutissimo e scomodo tema del suicidio "assistito" è frutto di una intraprendenza sia morale che intellettuale, per non dire politica, di un certo rilievo. E va detto che Almodòvar restituisce al pubblico una prova intrigante sia di scrittura che di pudore nel mostrare apertamente nessuna mezza verità.
Ma stupisce al tempo stesso - e questo purtroppo non valorizza la pellicola, semmai, al contrario, la indebolisce - come il film si sbilanci tanto sulla figura della Swinton, secondo una logica narrativa a dire il vero scontata, quando invece il vero punto di interesse con cui il pubblico dovrebbe fare i conti sono Martha e i personaggi satelliti che accompagnano direttamente o postuma la paziente, senza che vengano sviscerati dubbi, amarezze, giudizi, retaggi culturali, né che venga mai mostrata una vacillanza nella loro coscienza, se non a parole, tutte bellissime quanto volatili e dotte, forse troppo dotte. Così come spiazza la metafora cromatica così "vitale" quanto scontata ed estetizzante: ogni inquadratura, che sia della clinica, così come degli appartamenti che della casa nella foresta, è un deliziosissimo moodboard di una rivista di interni (non è la prima volta che Almodòvar eccede nella ricerca dell'arredamento e trascura chi li abita quegli spazi).
Ma quello che sconvolge più di tutto è leggere i recensori più adulatori che al di là di commentare: "ogni battuta è come soppesata e ridotta all’essenziale", "evita qualsiasi concessione alla retorica e al melodramma" - come se questi critici avessero accidentalmente sbagliato sala - non si sono nemmeno accorti forse di uno dei momenti più "interessanti" di tutta l'opera. In una scena particolare si confrontano Martha e l'ex amante Damian (J.Turturro) sul pessimismo ideologico di quest'ultimo che non vede speranza in un'umanità che a lui pare votata a estinguersi grazie ai neoliberismi estremi, e tutto il dialogo avviene sulle rive di un'oasi lacustre al tavolo di un bar sciccoso dove servono dietetici aperitivi a base di fragole. Se questa vuole essere la sottilissima accusa contro le ipocrisie di classe, allora tutto il film andrebbe rivisto sotto una lettura che non può escludere il peso del denaro nell'orientamento del pensiero che della vita, sia in senso etico che concreto. Solo così infatti si potrebbe risolvere, in gran parte, il grande quesito: "Ma io la dignità di fronte alla morte la troverei anche senza i milioni sul conto corrente, sacrificando le mie aspirazioni, anche senza citare Faulkner e Joyce?". Non che questo voglia indurre a credere che per "morire" dignitosamente bisogna farlo seguendo l'umiltà "francescana", ma semmai comunque a chiedersi "cosa potrebbe preparare al meglio la mia dipartita?". Tutto il film è in effetti una preparazione, ma quanto è verosimile, quanto e per quanti ciò è possibile? È contingente la Swinton quando sospira "come mi mancherà il mio Skyline" parlando con nostalgia della parete finestrata che dà su Central Park o è volutamente naif? Sebbene, alla lontana, le due scrittrici potrebbero al tempo stesso riflettere due stati della ragione, quella emotiva (di matrice spirituale cristiana) e quella razionale (illuminista), quella occidentale e quella orientale, tuttavia il film, compreso Il finale, non risolve molto la domanda, e rimane purtroppo in superficie, malgrado la sceneggiatura così prescrittiva e serrata - con volute declinazioni che non possono non ricordare il cinema di Hitchcock (a partire dal gusto per le simmetrie così come per le musiche onnipresenti e vivide). Ma bisogna vedere se anche questa non sia una sottilissima provocazione o un estremo gesto di delicatezza da parte di Almodòvar.
Bisogna avere pazienza e aspettare cosa e quanto rimarrà di questa pellicola che, checché se ne possa dire - si apre giustamente al confronto.
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[+] un film da leggere
(di stefano59)
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felicity
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giovedì 7 agosto 2025
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vero capolavoro, una lezione di cinema
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La stanza accanto è un film di cui è difficile dire perché dice tutto da solo, e con tale sublime eleganza e intelligenza da poter far sentire inopportuna qualunque parola in più.
La prima parte del film è uno di quei racconti à la Almodóvar, dove una chiacchierata tra vecchie amiche che si aggiornano sugli anni passati nel silenzio reciproco si trasforma in un racconto di funamboliche peripezie, con flashback che parlano di guerre, di abbandoni, di incendi, di figli, di amanti, di sesso. È la vita che esplode nei racconti di Martha, pallida e magrissima, che dal letto della clinica avvolta in ampi maglioni viola e blu o carezzata da eleganti giacche da camera, racconta a Ingrid quello che è stato.
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La stanza accanto è un film di cui è difficile dire perché dice tutto da solo, e con tale sublime eleganza e intelligenza da poter far sentire inopportuna qualunque parola in più.
La prima parte del film è uno di quei racconti à la Almodóvar, dove una chiacchierata tra vecchie amiche che si aggiornano sugli anni passati nel silenzio reciproco si trasforma in un racconto di funamboliche peripezie, con flashback che parlano di guerre, di abbandoni, di incendi, di figli, di amanti, di sesso. È la vita che esplode nei racconti di Martha, pallida e magrissima, che dal letto della clinica avvolta in ampi maglioni viola e blu o carezzata da eleganti giacche da camera, racconta a Ingrid quello che è stato.
Quando Martha lascia la clinica e torna a casa fermamente decisa a organizzare la propria dipartita, la messa in scena si fa infatti più sintetica e il melodramma viene silenziato, disinnescato. Il passato rocambolesco sparisce dalle immagini, niente più flashback, niente più storie, niente più tortuosità ma un lucido e metodico piano che prende forma circondato dei segni di quella vita dalla quale la donna sta per congedarsi.
Mobili, oggetti, libri, taccuini, film, fotografie, scatole, buste, fogli, tutto nella casa è traccia e sedimento, memoria senza mai nostalgia: la casa è li, accogliente, avvolgente come un abbraccio discreto. Ma non è li che Martha può morire. Ci vuole un’altra casa e una altro passaggio della messa in scena verso un’ulteriore asciuttezza, verso un’ulteriore svuotamento, verso un’ulteriore essenzialità.
Così Martha e Ingrid possono abitare insieme solo un nuovo spazio, uno spazio altro dove non c’è memoria, minimale ma non asettico, elegantissimo, ricercatissimo, ma dove nulla è personale o familiare: solo superfici, linee, vetrate, pieni, vuoti, dove i colori possono essere solo pieni, dove non ci sono sfumature, dove le porte possono essere solo aperte o chiuse, definitive.
E dove la morte può diventare un magnifico quadro composto con precisa meticolosità al momento giusto.
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edmund
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venerdì 4 luglio 2025
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anche i ricchi muoiono
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Anche i ricchi muoiono
Ebbene sì! Anche i ricchi muoiono. E come da copione, con i soldi che si ritrovano (qualcuno se li è pure sudati) possono scegliersi la vita e, udite udite, finanche la morte si scelgono. Che ci faccia ancora arrabbiare un’ovvietà del genere può soltanto farmi apprezzare di più l’invidia sociale come motore di cambiamento di ogni tempo e base di tutte le rivoluzioni a cominciare da quella francese che, sarebbe bene non dimenticare mai, fu rivoluzione borghese per eccellenza e prima di tutto.
E come muore un sottoproletario che si deve affidare alle amorevoli cure del sistema sanitario nazionale americano o italiano? (quest’ultimo molto meglio di sicuro) E che è costretto a muoversi in un monolocale di 30 metri quadri? Preghiamo Almodovar di scriverci su il prossimo film così da accontentare tutte le classi sociali più indigenti cui appartengo anch’io (giusto per fugare qualunque equivoco dei soliti ben pensanti e falsamente progressisti).
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Anche i ricchi muoiono
Ebbene sì! Anche i ricchi muoiono. E come da copione, con i soldi che si ritrovano (qualcuno se li è pure sudati) possono scegliersi la vita e, udite udite, finanche la morte si scelgono. Che ci faccia ancora arrabbiare un’ovvietà del genere può soltanto farmi apprezzare di più l’invidia sociale come motore di cambiamento di ogni tempo e base di tutte le rivoluzioni a cominciare da quella francese che, sarebbe bene non dimenticare mai, fu rivoluzione borghese per eccellenza e prima di tutto.
E come muore un sottoproletario che si deve affidare alle amorevoli cure del sistema sanitario nazionale americano o italiano? (quest’ultimo molto meglio di sicuro) E che è costretto a muoversi in un monolocale di 30 metri quadri? Preghiamo Almodovar di scriverci su il prossimo film così da accontentare tutte le classi sociali più indigenti cui appartengo anch’io (giusto per fugare qualunque equivoco dei soliti ben pensanti e falsamente progressisti).
Ci sarebbe da augurarsi che ci fossero ancora borghesi illuminati che invece che pensare tutto il giorno a come fregare il fisco avessero a cuore ancora il bene comune. E per bene comune ci metterei, secondo me, anche la possibilità, trasversale a tutte le classi sociali, di poter scegliere come e quando morire. Se i ricchi sfruttassero la propria posizione sociale e le proprie influenze per favorire leggi che finiscono poi per tutelare i diritti di tutti e a prescindere dalla disponibilità finanziaria di ciascuno, io di certo non mi metterei a polemizzare beceramente contro le classi “superiori”.
Allora, se per leggere il film riuscissi a liberarmi momentaneamente delle lenti classiste di foggia fondamentalmente marxiana allora forse proverei a spostare l’attenzione verso alcuni contenuti che avrebbero meritato maggiore considerazione da parte di certa platea.
I ruoli di genere, la guerra, le sorti del pianeta, la questione climatica, la faccenda della democrazia moderna e le sue prospettive. E poi la questione della sessualità e il sesso (sfrenato?) come antidoto a tutti i dolori del mondo (qui Almodovar mostra una quasi ossessione per l’argomento e ce lo deve mettere dappertutto il sesso come il prezzemolo altrimenti scoppia. Almodovar l’ultimo dei freudiani) Tutte questioncine molto legate tra loro e che mettono paradossalmente in secondo piano la morte della protagonista. Ecco forse se un appunto grande si può fare al regista è di aver messo insieme un sacco di temi che avrebbero meritato ciascuno un film dedicato. Ma forse era questa l’intenzione del regista? Affogare il tema dell’eutanasia e del suicidio assistito in questioni che hanno un respiro più collettivo e sociale? Come a dire che il dolore privato è in fondo ben poca cosa se paragonato al dolore più diffuso della società nel suo complesso destinata all’autodistruzione se non daremo risposte celeri ed efficaci nel più breve tempo. Parafrasando “Rick Blaine” che si rivolge accoratamente a “Ilsa Lund” sembra quasi che il regista voglia far dire a Martha prima di lasciare l’amica Ingrid e volgendosi a quest’ultima: “...Le pose da eroina non mi piacciono, ma tu sai che i problemi di due piccole persone come noi (le mie metastasi, la nostra amicizia) non contano in questa immensa tragedia” (“La stanza accanto” come “Casablanca?”) Insomma le questioni sociali hanno la priorità sulle questioni private e in tutte le epoche? Ma a pensarci bene, l’eutanasia o il suicidio assistito non sono forse anche queste questioni sociali? E che toccano nel profondo l’essenza stessa di una convivenza sociale che va oltre la mera “territorialità sovrana” e che voglia dirsi minimamente civile?
E se i ricchi non spendessero per il lusso i poveri morirebbero di fame! È ancora così purtroppo ed è inutile negarselo. E conviene ogni tanto ristudiarlo Marx soprattutto in questi tempi di tragedia.
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[+] casablanca?
(di armando )
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la criticadora de pelicula
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mercoledì 18 giugno 2025
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la stanza accanto, anzi di sotto
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Nella stanza accanto, anzi di sotto, in una bellissima casa nel bosco, c'è Ingrid, la quale si deve dimensionare con la paura della morte: quella imminente di Martha, l' amica malata terminale, intenzionata a farla finita prima che il cancro la divori.
Martha deciderà quando andarsene e Ingrid lo dovrà scoprire, con tutte le angosce del caso, scrutando ogni giorno la porta della stanza dove alloggia l' amica. Chiusa sarà il segnale certo (o quasi) che Martha è dipartita.
Questo in sintesi il nocciolo di una storia molto ben recitata: la morte affrontata con coraggio da entrambe le protagoniste. Un evento che tocca tutti nessuno escluso, e che Ingrid avversa ritenendolo quasi inconcepibile, ma per Martha rappresenta una necessità sempre più urgente.
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Nella stanza accanto, anzi di sotto, in una bellissima casa nel bosco, c'è Ingrid, la quale si deve dimensionare con la paura della morte: quella imminente di Martha, l' amica malata terminale, intenzionata a farla finita prima che il cancro la divori.
Martha deciderà quando andarsene e Ingrid lo dovrà scoprire, con tutte le angosce del caso, scrutando ogni giorno la porta della stanza dove alloggia l' amica. Chiusa sarà il segnale certo (o quasi) che Martha è dipartita.
Questo in sintesi il nocciolo di una storia molto ben recitata: la morte affrontata con coraggio da entrambe le protagoniste. Un evento che tocca tutti nessuno escluso, e che Ingrid avversa ritenendolo quasi inconcepibile, ma per Martha rappresenta una necessità sempre più urgente.
Almodovar sortisce ancora volta una pellicola al femminile, perché sono soprattutto le donne a confrontarsi con i temi fondamentali dell' esistenza.
Nella regione dove è nato, la Mancha, è molto vivo il senso della morte come un trapasso naturale, e l' adesione all' eutanasia come possibilità e come diritto è evidenziato nel film in modo lucido e toccante, senza pietismi, anzi.
Di contorno alla vicenda vengono trattati altri temi come l' incapacità di essere genitori, la crisi climatica, la guerra.
È il quadro, evidenziato dalle conversazioni tra le due donne e con l'amico in comune, di un mondo, di un umanità che sta andando verso il declino. Parallelo interessante con la vicenda intima.
Il finale è di speranza: Martha si riscatta in extremis con la figlia Michelle affidandola ad Ingrid, che anche in questo caso dimostra un' empatia commovente.
Quella di cui tutti noi, tutto il mondo ha bisogno.
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marcus
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lunedì 7 luglio 2025
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martha, ingrid, damian e joyce
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Il senso di paralisi della volontà vissuto da Martha (nel senso che la società e le sue leggi le impediscono di esercitarla) diventa il pretesto molto metaforico per discutere della più ampia "paralisi" di una società oppressiva, ormai irredimibile che difetta soprattutto di capacità di immedesimazione. Una società in cui la compassione è assente, decisamente.
Joyce si respira lungo tutto il film a ben guardare e non solo mentre “la neve cade stancamente…stancamente come se scendesse la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti". Tutti i personaggi principali sono molto joyciani tanto che mi verrebbe da dire che il film è liberamente ispirato a “Gente di Dublino” (e non guardano forse le due amiche un film “The dead” titolo dell’ultimo dei racconti dell’omonima raccolta?)
Il film rappresenta, secondo me, una buona sintesi intensa e insieme amara tra riflessione interiore e analisi sociale.
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Il senso di paralisi della volontà vissuto da Martha (nel senso che la società e le sue leggi le impediscono di esercitarla) diventa il pretesto molto metaforico per discutere della più ampia "paralisi" di una società oppressiva, ormai irredimibile che difetta soprattutto di capacità di immedesimazione. Una società in cui la compassione è assente, decisamente.
Joyce si respira lungo tutto il film a ben guardare e non solo mentre “la neve cade stancamente…stancamente come se scendesse la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti". Tutti i personaggi principali sono molto joyciani tanto che mi verrebbe da dire che il film è liberamente ispirato a “Gente di Dublino” (e non guardano forse le due amiche un film “The dead” titolo dell’ultimo dei racconti dell’omonima raccolta?)
Il film rappresenta, secondo me, una buona sintesi intensa e insieme amara tra riflessione interiore e analisi sociale. Con una piccola nota forse non so quanto contemplata dal cineasta spagnolo:l’«introspezione» individuale (o autoanalisi o ripiegamento interiore) come si conciliano con la riflessione collettiva o l’analisi sociale? In che rapporto stanno i due termini? Allora, come si combinano il decadimento fisico personale di Martha e la decadenza della società più nel suo complesso? Forse la risposta il regista la dà già per scontata, poiché il “guardarsi dentro” rimane pur sempre il primo stadio di un percorso che dovrebbe sfociare poi, come inevitabile conseguenza, nell’accoglimento e nell’incontro tra differenti individui e differenti “ideali”. Seppure non tutti gli ideali hanno identica legittimità in un dato periodo storico. Ed è a partire da quest’ultima considerazione banale che si consuma lo scontro, invece molto “epico”, tra la volontà di Martha e la volontà della società vigente quella che vuole impedirle di aderire all’ideale della “dolce morte”.
Sulla questione eutanasia di Martha è stato già detto molto. Io invece qui vorrei soffermarmi sulle due figure emblematiche di Ingrid e Damian che nell’economia del film di Almodovar sembrano assurgere a rappresentanti di due visioni del mondo che appaiono opposte in superficie, ma che sembrano convergere ad un dato momento.
Riprendo quanto dice Damian, qui in veste di “avvocato del diavolo”, a Ingrid al "ristorante" che mi pare paradigmatico di questo discorso: Damian “... Le persone dovrebbero essere consapevoli dello stato del cazzo del pianeta su cui vivono…Stiamo rilasciando più CO2 nell'aria di quanto abbiamo mai fatto. Prima o poi, e ho paura che sarà prima, tutto questo andrà a farsi benedire. Niente accelererà la fine di questo pianeta più della sopravvivenza del neoliberismo e dell'ascesa dell'estrema destra. E noi li abbiamo proprio qui che marciano fianco a fianco…”. Come dargli torto? Sembra la fotografia spietata dei mala tempora che corrono. C’è un non so che di terribile in queste affermazioni e non semplicemente per la loro schietta brutalità. Forse il tutto si comprende meglio se confrontiamo la risposta di Ingrid che appare altrettanto terribile, a pensarci bene, seppure intrisa in apparenza di maggiore speranza e fiducia nel mondo e nelle persone: “…Non puoi andartene in giro a dire alle persone che non c'è speranza... sto vivendo ogni giorno pensando che troverò Martha senza vita, ma questo non mi impedisce di godermi ogni minuto con lei…perchéci sono molti modi di vivere dentro una tragedia,ovviamente mi fa soffrire, ma posso accettarlo e sto provando a vivere con la stessa gioia che ha lei e con la stessa gratitudine”.
A parte l’encomiabile comportamento di Ingrid verso Martha, dov’è qui il problema, allora?
“Ci sono molti modi di vivere dentro una tragedia”, dice Ingrid. O ci sono soltanto “molti modi di crogiolarsi in una tragedia?”. Eh già, perché forse ciascuno di noi in questo momento storico si sente come l’orchestrale del Titanic che continua a suonare mentre la nave affonda inesorabilmente. E allora non si può che provare a “godersi il momento presente” così com’è, seppure angoscioso. Questo è tutto? Non rimane che trarre dai sintomi della sofferenza il massimo del vantaggio secondario che ci è consentito? Che è poi la logica che rifiuta categoricamente Martha quando ha deciso che non c’è alcun vantaggio nella sofferenza e sceglie di porre fine ai sintomi procurandosi la morte. Poiché questi sintomi diventano unici testimoni dell’esistenza di Martha. Un’esistenza che finisce semplicemente per accadere nel suo ripetersi ininterrotto e senza meta. Il cancro le preclude ormai qualsiasi promessa di futuro e di scopo.
Ingrid e Damian forse rappresentano due modi di vivere la rassegnazione. Uno rinunciatario e arrendevole e un po’ “vigliacco” persino (Damian) e l’altro in apparenza più energico, reattivo, stoico a suo modo (Ingrid). E tuttavia speculari pur nella loro apparente asimmetricità. A loro modo entrambi esprimono la stessa identica assenza di speranza alla fin fine. Sprofondati come sono tutti e due in un “abisso temporale” sospeso tra un passato che non passa e un futuro che non c’è. “Conoscono cosa è accaduto. Vivono ciò che accade e sanno cosa accadrà”. Ma tutta questa splendida consapevolezza non gli servirà a niente, non eviterà la catastrofe. Il regista è carico di un pessimismo inconsolabile, pare, davvero joyciano, quando fa dire a Damian “Beh è tragico forse… è spiacevole sentirmelo dire, ma non ho più alcuna fiducia che la gente faccia la cosa giusta”. Damian non dice esattamente che la gente è idiota nel suo approccio agli altri e al mondo,soggiogata com’è da credenze balzane e pregiudizi e stereotipi, sempre incapace di pensare razionalmente e di comprendere il mondo, sebbene credo che Joyce avrebbe apprezzato certa invettiva visto che lui a suo tempo ci andava giù duro con i suoi conterranei in veste di esemplari significativi di certa umanità incorreggibile.
Dunque, ecco Damian impassibile, cinico, diremmo, nella sua consapevolezza tragica (l’immobilità del volto di Turturro è esemplare in tal senso) che le leggi dell’economia (il neoliberismo) ormai prevalgono su quelle della politica. Ingrid, invece, più ottimista, è disposta a credere che tutto sommato c’è pur sempre vita. C’è della moralità in una umanità che continua a svilupparsi. Anche se per svilupparsi è disposta a sacrificarne una parte. Ingrid qui dovrebbe rappresentare la “potenza della vita”, ma anche della stessa ragione, forse, che prevalgono sul disfattismo cosmico. Da un lato Damian che si rassegna all’esaltazione realista, ormai imperante, della crudeltà che può venire tristemente accertata dalla nostra esperienza quotidiana. E dall’altro Ingrid, rassegnata pure lei, che però si fa ispirare più volentieri dall’astrattezza metafisica della pietà.
Ma ciò che è peggio è che abbiamo finito, forse per un meccanismo di difesa, per giudicare come occasionale o fortuita la situazione tragica del pianeta agonizzante. È qui la vera tragedia, forse, che i due protagonisti incarnano inconsapevolmente. E come reagiscono i due ex amanti alla tragedia che incombe? Da una parte, Damian, che oppone il classico cammino esistenziale individuale. Ovvero l’illusione di chi, stanco e rassegnato all’andazzo del mondo, per sentirsi a posto con la propria coscienza e preservare la propria purezza ideologica si rifugia nel comodo cantuccio del radicalismo solitario. Ma sarà saggio reagire al neoliberismo e all’avanzata delle destre estreme e alle loro conseguenze con altrettanto egotismo asociale individuale? All’opposto Ingrid che invece vuole provare a godersi ogni momento di vita che rimane per quanto doloroso sia. In ogni caso tutti e due si considerano spacciati, mi pare.
E la condizione di Martha non sembra la metafora di ciò che stanno vivendo Damian e Ingrid? Tutti vivono a loro modo una condizione di “totale incapacità/impossibilità di agire: Martha non può agire la propria volontà di morire se non ricorrendo al sotterfugio illegale della pillola letale scovata nel dark web, ma anche gli altri due sono o si sentono comunque assolutamente impotenti e incapaci di agire in un mondo che “andrà a farsi benedire, ho paura, prima che poi”. E allora non resterebbe a ciascuno che cimentarsi nella prova della mera sopravvivenza in attesa dell’inevitabile? Martha riesce a ribellarsi al (proprio) destino, e rifiuta il mero pensiero della sopravvivenza quello che diventa azione senza scopo, fine in sé. Martha si assicura paradossalmente con la propria morte autoprocurata ancora un’ultima “possibilità di azione” e prima che sopraggiunga il deterioramento definitivo causato dal cancro.Certo, può apparire paradossale trasformare – l’atto finale della morte nell’inizio di qualcosa che si rivelerà una fine -. “Il cancro non mi avrà. Perché me ne sarò andata molto prima e per mia volontà”. E non c’è niente da capire. Questo è il modo in cui Martha ha scelto di combattere la sua battaglia. E non si rassegna alle ingiunzioni dei giudici, dei politici e dei poliziotti “uomini di fede” che vorrebbero piegarla alla loro ossessione di “vita ad ogni costo” e che vogliono imporle le loro buone e sante ragioni per vivere.
E quale possibilità di azione resta invece a Damian e Ingrid di fronte all’agonia del mondo e di quella personale, seppure più simbolica, intesa qui come senso di inanità di fronte al destino del pianeta?- . Come condurranno le rispettive battaglie i nostri due “eroi?”. Che le persone comincino a suicidarsi in questo mondo agonizzante – non appare una soluzione immediatamente praticabile proprio concretamente. Tutto sommato la condizione di Ingrid e Damian non è “terminale” come quella di Martha. Seppure anche la loro condizione possa considerarsi estrema, borderline, diciamo così. “Terminali” di lunga scadenza, potremmo definirli, cioè tenuti in vita ad oltranza attraverso una sedazione massiva delle coscienze che dovrebbe alleviare il fatidico mal di vivere.
A Damian e Ingrid non resta che l’astrazione pura quella che non ha alcuna ricaduta nella realtà fattuale. E l’arte del mugugno sterile o la fiducia da anime belle la fanno da padroni. Insomma a Ingrid e Damian il massimo dell’azione che gli è concessa è osservare l’azione stessa di questo mondo che va a farsi benedire. A loro non rimane che limitarsi unicamente a descrivere ciò che accade. Un po’ come fa Damian nelle sue conferenze prive di passione. O come quando si rifugia nei maledetti ricordi e ripensa a quando “un giorno senza sesso era sempre un giorno incompleto”. Nient’altro che ricordi che però lo isolano ancora di più nel maledetto pensiero e sembra quasi come uno che non sa nemmeno dov’è in realtà e che ci fa qui. Insomma, l’introspezione non sembra una risposta all’infelicità personale, né ai mali del mondo. Certo c’è anche l’arte che dà sollievo come gli suggerisce Ingrid, sebbene,risponde Damian, “ogni poeta al mondo che scrivesse una poesia sulla crisi climatica non salverebbe nemmeno un albero”.
Qui Damian mobilità tutto il “realismo” che cova dentro di sé nel momento in cui ci informa che non crede affatto che l’arte possa rappresentare una salvezza per l’umanità. Non è facendo della poesia che salveremo gli alberi o che cancelleremo ogni sorta di ingiustizia o di altra meschinità umana.
Damian sembra quasi disprezzare l’arte perché in quanto tale essa esiste per testimoniare fatalmente proprio la miseria umana. Paradossalmente non esisterebbe l’arte se non ci fossero le miserie umane. Allora, l’arte esiste unicamente per poterla mostrare la miseria.
“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” e di “artisti”, sarebbe il caso di dire
Dunque, Ingrid o Damian? Chi dei due ha ragione? Chi è più morale tra i due? Come gestire l’incertezza? La reazione nichilista isolazionista di Damian che si strugge nei ricordi di un passato nostalgico o il vitalismo speranzoso che sa un tantino di “Rifiuto/Diniego”di Ingrid che si concentra sul presente e si protegge dal pensiero agghiacciante dell’inevitabilità della morte stessa? Tuttavia, la posizione ideologica di Damian, o il suo intimo cinico convincimento, non credo che lo porterebbero per principio a negare aiuto a chi ne avesse bisogno. Non è il caso di farne una questione morale di “giusto o sbagliato”. Si tratta di fare una scelta. La scelta di come vivere l’agonia personale. Sia che si tratti del declino fisico causato da un cancro, sia che si tratti di come affrontare quotidianamente la realtà esterna di un mondo in stato di coma morale ed etico forse irreversibili. A ciascuno il suo (modo), dunque. E allora, Damian o Ingrid? Poco importa! Perché in un modo o nell’altro il tormento continuerà e l’esito finale è assicurato. Forse! O come direbbe Ingrid “non può essere il suicidio collettivo la soluzione” alla miseria umana. Basta starsene lì ad aspettare…!
Belle le musiche che personalmente ho trovato evocative di certe atmosfere Hitchcockiane.
3 stelle e 1/2 ad Almodovar
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(di aleksieviv)
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francesco
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venerdì 17 ottobre 2025
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almod?var, tra hopper e joyce, un requiem intimo
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Con La stanza accanto Pedro Almodóvar sceglie la via della sottrazione: niente colori sgargianti, niente melodramma travolgente, ma un film intimo, scandito da dialoghi e silenzi che parlano di amicizia, di memoria, e della libertà di scegliere la propria fine.
Il cuore dell’opera pulsa nella parte finale, quando le due protagoniste — interpretate da una Tilda Swinton fragile e fiera e da una Julianne Moore intensa e composta — si ritrovano nella casa che diventa teatro dell’ultimo congedo. Su una parete, People in the Sun di Hopper: figure sedute alla luce, immobili e sospese, come presagi della stessa attesa che grava sulle due donne, ferme sul crinale tra la vita e la morte.
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Con La stanza accanto Pedro Almodóvar sceglie la via della sottrazione: niente colori sgargianti, niente melodramma travolgente, ma un film intimo, scandito da dialoghi e silenzi che parlano di amicizia, di memoria, e della libertà di scegliere la propria fine.
Il cuore dell’opera pulsa nella parte finale, quando le due protagoniste — interpretate da una Tilda Swinton fragile e fiera e da una Julianne Moore intensa e composta — si ritrovano nella casa che diventa teatro dell’ultimo congedo. Su una parete, People in the Sun di Hopper: figure sedute alla luce, immobili e sospese, come presagi della stessa attesa che grava sulle due donne, ferme sul crinale tra la vita e la morte.
E poi, oltre le finestre, arriva la neve. Non è la casa a esserne avvolta, ma il mondo esterno: la città, il paesaggio, la vita che continua. In quell’istante, Almodóvar lascia risuonare l’eco di Joyce: il finale de I morti, con la neve che cade su tutta l’Irlanda, diventa un manto che si stende anche qui, unificando vivi e defunti, ricordi e oblii, come se tutto fosse destinato a dissolversi in un’unica, bianca quiete.
La stanza accanto è un requiem pudico e poetico, che non offre catarsi immediata ma custodisce un’intensità lenta, sotterranea. È Hopper e Joyce insieme: la sospensione della luce e la malinconia della neve. Un film che non consola, ma accompagna, lasciando allo spettatore la sensazione di aver assistito a un addio che, pur nella sua durezza, brilla della più luminosa dignità.
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