Primo lungometraggio in lingua in inglese di Almodovar, premiato col Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia e candidato a 4 EFA. Dal 5 dicembre al cinema.
di Roberto Manassero
Con La stanza accanto, suo primo lungometraggio in lingua in inglese (girato in parte a New York e in parte in Spagna), Pedro Almodóvar, a ormai 75 anni, ha finalmente vinto il Leone d’oro per un suo film, dopo quello per la carriera nel 2019 e soprattutto dopo decenni di frequentazione in concorso dei massimi festival (soprattutto Cannes) e solamente, si fa per dire, una Palma d’argento alla regia per Tutto su mia madre (1999), poi premiato anche con un Oscar per il miglior film in lingua straniera.
Mancava dunque la consacrazione definitiva, ed è significativo che questa sia arrivata con il film della maturità, o forse, meglio ancora, con il suo film stilisticamente meno “almodovariano”, specie dopo la resa dei conti personale di Dolor y gloria (guarda la video recensione), dove la parte del regista ormai anziano e piagato dal dolore fisico era interpretata da uno dei suoi attori prediletti, Antonio Banderas.
La stanza accanto, che ha una coppia di attrici meravigliose, Tilda Swinton e Julianne Moore, più una piccola partecipazione di John Turturro, è sobrio, essenziale, asciutto, tutto il contrario dell’idea che ancora oggi si ha del cinema di Almodóvar, che nell’immaginario è colorato, con gli interni pop, gli incroci sentimentali, i destini segnati, i corpi posseduti, sostituiti, replicati e spesso piene di film citati, scritti o da scrivere, girati o da girare… A Venezia c’è stato pure qualcuno che l’ha scambiato per un film freddo, tutto di testa, addirittura visivamente piatto, laddove al contrario la sua messinscena è di una tale limpidezza da rendere ancora più chiaro e scioccante il tema di fondo: che è, come in molti altri film del regista spagnolo (Tutto su mia madre, Parla con lei, Volver – verrebbe da dire i suoi migliori), la morte.
Protagoniste sono la scrittrice Ingrid (Moore), che ha da poco pubblicato un libro in cui racconta il suo timore per la morte, e la giornalista ed ex reporter di guerra Martha (Swinton), malata terminale: amiche ai tempi dell’università, poi separate dalle rispettive carriere, le due donne si rincontrano all’inizio del film, dopo che la prima ha saputo delle condizioni della seconda ed è andata a farle visita in ospedale a New York. Da qui la rinascita del loro rapporto, che almeno inizialmente ripercorre le tappe di un tipico racconto almodovariano, al limite fra realtà e fiction, passato e sua rielaborazione creativa, vista la professione delle protagoniste e le aperture del racconto – come possibili altri film dentro il film – al passato di Martha e ai suoi incontri negli scenari bellici documentati, tra il thriller e il melodramma.
Poi, però, tutto cambia, o meglio tutto si ferma: Martha (che ha la presenza imperscrutabile della Swinton, ancora con Almodóvar dopo il corto The Human Voice, tratto da Cocteau) affitta una splendida casa d’architettura organica sulle montagne vicino a New York (nella realtà una località non lontano da Madrid, dal momento che tutto nel film diventa così astratto e immediato da perdere ogni connotazione spazio-temporale) e invita Ingrid (a cui la Moore offre il suo volto dolente e spaventato) ad accompagnarla in quella che potrebbe essere la sua ultima vacanza. Soprattutto, le chiede di aiutarla a morire, e il film diventa una riflessione pacata, razionale e insieme straordinariamente emotiva sull’impronunciabile parola eutanasia, sul confine fra la vita e la morte, liberandosi dalle possibili trame e dai possibili generi della prima parte e diventando semplicemente (ma è proprio questo il punto del film: la sua semplicità!) il racconto del rapporto fra due amiche, di cui una chiede all’altra l’impossibile.
«Una delle amiche», ha detto il regista, «sta per morire e l’altra imparerà, tra le altre cose, a riconoscere e ad accettare la morte, purché sia decisa dalla persona; anche che la morte, in definitiva, non è il fine assoluto. La gente non muore completamente; dal mio ateismo, dalla possibilità di reincarnazione o da quel “oltre” c’è qualcosa di più che oscurità è scivolato nella sceneggiatura di questo film. Martha, malata di cancro terminale, si reincarna (né letteralmente né paranormale) nella sua amica Ingrid».
Eccolo dunque il senso di La stanza accanto e in generale del quel continuo movimento nel cinema di Almodóvar di personaggi ed emozioni: l’importanza di una comunicazione fatta di parole (tante, come sempre), racconti, incontri, libri e film (qui si vede alla tv Gente di Dublino di John Huston e si cita lo straordinario finale del racconto di Joyce), ma soprattutto di anime e di corpi che le contengono. Nei film di Almodovar, i vestiti parlano, e così le case, gli arredi (una finestra, una porta, una sedia sdraio), le acconciature, poiché il cinema riesce a far parlare una realtà misteriosa che sullo schermo si rende misteriosamente comprensibile. La stanza accanto in fondo è un film così bello da spiegarsi da sé, senza bisogno di dare troppo spiegazione, ma semplicemente, ancora, mostrando le cose per quello che appaiono. Almodóvar sceglie la vita nel momento in cui accetta la morte, e in questo modo tocca l’apice della propria carriera.
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