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Il seme del fico sacro, l’incredibile percorso di un film e del suo regista

Concepito in carcere, girato in clandestinità e portato sullo schermo grazie al coraggio di un manipolo di anime libere, un film che nasce da un'urgenza. Premio Speciale della Giuria a Cannes e candidato a 3 EFA.
di Marzia Gandolfi

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martedì 3 dicembre 2024 - Focus

La primavera scorsa Mohammad Rasoulof (Il male non esiste) è partito, a piedi, attraverso le montagne. La sua condanna era stata pronunciata, otto anni di carcere per “messa in pericolo della sicurezza nazionale”, e il suo arresto era inevitabile. Non gli restava che fuggire lontano, fino in Germania dove vive attualmente con la figlia. Pochi mesi prima, il regista iraniano aveva girato clandestinamente Il seme del fico sacro, un film di quasi tre ore - candidato a 3 Premi EFA (la cerimonia di premiazione sarà in streaming su MYmovies)- che racconta l’irruzione del movimento “Donne, Vita, Libertà” nella famiglia di un giudice istruttore devoto al regime dei mullah. Una dichiarazione di guerra alla Repubblica Islamica, dove le attrici sono riprese a capo scoperto nelle scene d’interni. Mohammad Rasoulof, a cui viene negato il passaporto dal 2017 e che è stato condannato al carcere nel 2010 e di nuovo nel 2019 per “propaganda contro il regime”, voleva continuare il suo lavoro, cambiare il mondo col cinema, questione annosa che il suo film riprende con una potenza estetica e politica inaudite. Un film realizzato come atto di resistenza prima di lasciare illegalmente il suo Paese alla fine di aprile e approdare a Cannes, dove vince il Premio Speciale della Giuria.

Il seme del fico sacro nasce da un’urgenza e da una necessità. La necessità di raccontare un Iran sfidato dalle donne. Il Paese dell’oscurantismo è scosso dalla loro voce che afferma, denuncia e porta a casa il punto. La sua ambizione formale e narrativa (il film è allo stesso tempo un processo a porte chiuse, un thriller e un western) è vertiginosa, così come il coraggio del suo team nell’affrontare le riprese in una terra ostile. Mohammad Rasoulof realizza questo film con la coscienza pulita, non per gusto ma per dovere. A fianco di un’intera generazione di giovani e contro il regime teocratico che impone la sua legittimità ricorrendo a una violenza sempre maggiore. Concepito in carcere, girato in clandestinità e portato sullo schermo grazie al coraggio di un manipolo di anime libere, Il seme del fico sacro ha la forza esplosiva di un atto di resistenza. L’autore lancia coraggiosamente una serie di granate e fa boom, riducendo l’orrore totalitario alla dimensione di un microcosmo familiare e integrando la fiction coi filmati crudi e selvaggi che circolano sui social network e mostrano assembramenti di donne in rivolta, di donne al volante trascinate fuori dai propri veicoli, di pestaggi sistematici e di una Teheran sull’orlo dell’implosione. Un clima insurrezionale in cui distinguiamo forti e chiari gli slogan: “Abbasso la teocrazia! Abbasso il dittatore! Donne, vita, libertà!”. La clamorosa morte di Mahsa Amini, una studentessa arrestata e picchiata a morte nel settembre 2022 perché non indossava il velo in “maniera appropriata”, viene evocata direttamente e registra il punto di non ritorno.
 


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In foto una scena del film.

È raro che un film sia così in sintonia con eventi recenti e scottanti, inserendo documenti esplosivi nel cuore della sua narrazione. Ma c’è di più. Perché quello che accade in strada ha un impatto diretto sulle riprese abilmente orchestrate nell’appartamento di famiglia, un mondo a sé, di sorveglianza, di cose taciute, di segreti scambiati, di conversazioni come interrogatori, di accordi presi o traditi. Iman è una guardia ‘rivoluzionaria’. Di origini modeste, devoto e lavoratore, ha trascorso tutta la sua carriera in polizia e sta per assumere l’incarico che ha sempre desiderato. L’uomo ha sposato la mite Najmeh e ha due figlie studentesse, Rezvan e Sana. Genitori e figlie si amano ma il nucleo familiare, al principio unito, comincia a incrinarsi. Mentre il padre soffoca i suoi scrupoli e si sottomette progressivamente all’ordine stabilito, le ragazze sostengono il movimento delle donne. Con grande disappunto della madre, che tende a schierarsi con il marito, mantenendo aperto il dialogo con le figlie. La donna prova a riconciliare e accontentare le parti, senza riuscirci. La pressione monta sui due fronte soprattutto quando il padre scopre di non avere più la sua arma di ordinanza. Una sequenza impressionante riassume la sua confusione e lo scarto (se non l’abisso) generazionale. Fermo al semaforo, il protagonista attende il verde affiancato a un’altra vettura. Al volante c’è una giovane donna, senza velo, coi capelli corti, il cappellino e il piercing. Sconcertato, abbassa il finestrino, sta per dire qualcosa ma poi cambia idea. Lo sguardo cupo dei suoi occhi annuncia un cambiamento.

L’oppressione è tanto più maligna nel racconto perché intrappola un padre, appena nominato giudice istruttore, nell’attuale rivolta popolare e femminile. Lo contrappone alle sue stesse figlie, a loro volta strette nella morsa tra autorità patriarcale e sociale. Il genitore sprofonda nella follia e le ragazze fanno quello che possono, in piena luce o di nascosto, in silenzio o coi capelli al vento. Mohammad Rasoulof si prende il suo tempo per costruire la tensione, dal confinamento della città all’esacerbazione della natura selvaggia. E quando il film si ferma, ci lascia senza fiato, infilando la direzione inattesa di un thriller a cielo aperto, implacabile e generoso di metafore. Tra paranoia galoppante, inseguimenti d’auto, sequestri e ‘nascondino’ angosciante in un labirintico villaggio in rovina, l’epilogo è impressionante e guidato dalla figlia minore, ribelle sovrana e inventiva, simbolo della gioventù in cui il regista ripone oggi tutta la sua fiducia. È lei, associata al movimento lanciato dalle donne, il contraltare al potere supremo del pater familias, è lei che riuscirà a liberare il Paese dal suo regime oppressivo. Lo sa per certo, Rasoulof, lo sa come respirare mentre concerta l’astuta economia spaziale e narrativa del film. L’autore non si trattiene nel descrivere la follia che travolge Iman (e quindi l’Iran), pronto a distruggere chi ama per salvare il suo abietto potere. E l’incisiva sequenza finale - un inseguimento tra le rovine - si conclude con la caduta del patriarcato e una vittoria che non può più tardare.


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