Una scommessa produttiva del cinema italiano che ha saputo rappresentare la libertà di esprimersi e di esprimere la propria identità. Un passaparola che continua a crescere anche grazie alle scuole che hanno portato i ragazzi a vedere il film in sala. In sala.
di Roberto Manassero
Al momento in cui scriviamo questo articolo, Il ragazzo dai pantaloni rosa ha incassato quasi 6 milioni di Euro. Un successo straordinario e inaspettato, a suo modo doloroso, perché costruito a partire da una vicenda tragica, ma anche consolante e magari di buon auspicio.
Evidentemente in tempi come questi era necessario un film ispirato alla storia vera di Andrea Spezzacatena, quindicenne vittima di bullismo e attacchi omofobi che si tolse la vita nel 2012: per i temi che solleva, per le reazioni che nel bene e nel male ottiene, per il passaparola che crea crescendo di settimana in settimana (è uscito lo scorso 7 novembre), o anche solo per i ragazzi e le ragazze delle scuole italiane che in queste settimane sono stati portati in sala dai loro istituti.
Le cronache ci hanno raccontato episodi riprovevoli, come i fischi e gli sfottò di alcuni studenti durante la proiezione (poi interrotta) alla Festa del cinema di Roma o come quello ancora più grave, avvenuto a Treviso, in cui alcuni genitori hanno provato a fermare la proiezione del film a scuola ritenendolo inadatto (basterebbe questo per rendere il film necessario), ma anche le lacrime sincere di Claudia Pandolfi (che nel film interpreta la mamma di Andrea, Teresa Manes, autrice del libro in cui ha raccontato il dolore del figlio e il proprio) nel leggere i commenti degli utenti alla sua pagina Instragram, con i ringraziamenti e le confessioni di persone riconosciutesi nei gesti di Andrea: l’incertezza dei sentimenti e dei desideri da adolescenti; il disinteresse nel vestire un paio di pantaloni diventati rosa per un lavaggio sbagliato; l’incomprensione per gli sfottò ricevuti; la misura colma dell’umiliazione che lo portò al gesto più grave…
Il ragazzo dai pantaloni rosa, scritto da Roberto Proia e diretto da Margherita Ferri, il primo esperto di teen movie (Sul più bello), la seconda già capace di affrontare il tema dell’identità di genere e della sua incertezza adolescenziale nell’esordio Zen - Sul ghiaccio sottile, ha una struttura molto semplice, in cui le emozioni sono recitate, dette, scritte, mai veramente mostrate; dove la divisione dei personaggi è netta, dove il melodramma è facilmente leggibile senza che il pubblico sia destabilizzato: eppure non è un film manipolatore, ma al contrario è sincero e diretto, didattico ma non didascalico, che sta a un passo di distanza dal dramma (e non lo affronta nei suoi aspetti più intollerabili: come è possibile, del resto, morire in questo modo? Come si può accettare il suicido di un figlio solo perché bullizzato in quanto presunto omosessuale?), e proprio per questo arriva a una fetta il più ampia possibile di pubblico.
Le ragioni del successo di Il ragazzo dai pantaloni rosa sono chiare e complesse al tempo stesso, chiamano in causa questioni che ci riguardano tutti, come adulti e adolescenti, genitori, figli e figlie (nel film si parla anche del divorzio della madre di Andrea e degli effetti su tutta la famiglia, magari sacrificando al tema la descrizione approfondita dei personaggi secondari). Per questo il film funziona e genera a catena un successo sempre più ampio (e già oltre le ben più rosee aspettative).
Da un punto di vista produttivo è una scommessa come tante del cinema italiano, ma in questo caso a funzionare è stata la strategia distributiva, che ha puntato sulle scuole e sul pubblico più giovane, e la messinscena di una regista che appartiene alla comunità LGBTQ+ e ha saputo trovare una voce generazionale, calda, accogliente, semplice e non semplificata, con un tono cinefilo (il film ha citazioni da Truffaut, De Palma, Lynch, Harry Potter) e un’anima queer.
Non è un capolavoro, certo, ma nemmeno doveva esserlo. Il ragazzo dai pantaloni rosa doveva raccontare la storia di due personaggi, Andrea e sua madre, che «rappresentano la libertà di esprimersi e di esprimere la propria identità» (parole della regista), e ha saputo farlo.