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Emilia Pérez, cinema puro, esplosivo, fiammeggiante

Melodramma e crime story, il film pluripremiato di Audiard (vincitore di 3 Golden Globe) è la storia di una resurrezione, di una vita che si reinventa. Al cinema.
di Giovanni Bogani

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Karla Sofía Gascón (52 anni) 31 marzo 1972, Madrid (Spagna) - Ariete. Interpreta Emilia / Manitas nel film di Jacques Audiard Emilia Perez.
sabato 11 gennaio 2025 - Focus

Perché Emilia Pérez è bello? Perché il film di Jacques Audiard, dopo aver sorpreso tutti a Cannes, dove ha ricevuto due premi cruciali, dopo aver stravinto agli EFA, gli European film Awards, e ai Golden Globe, dovrebbe travolgere anche noi, e – per inciso – anche i voters degli Oscar? 

Nel frattempo, da quando Emilia Pérez si è affacciato al Festival di Cannes, ha generato travolgenti entusiasmi e altrettanto travolgenti disamori. 
Per me, è stato amore a prima vista. Fin da quelle immagini indefinite, nel buio, con cui il film si apre: sono sagome baluginanti di mariachi, i cui contorni affiorano poco a poco nella notte. Poi vediamo le luci di una città immensa, nel buio: Città del Messico. E parte un film che travolge e trascina, un’esplosione di sentimenti, paradossi, punti esclamativi cinematografici, musica, canzoni, balli, balletti meccanici, lacrime, sangue, spari. Melodramma e crime story, storia di una resurrezione, di una vita che si reinventa. Storia almodovariana, colorata e liquida, densa e tragica: donne sull’orlo di una crisi di gender.  

A Cannes, Emilia Pérez esplose come una vampata di colori, di umori, di sentimenti che, al confronto, il festival fino a quel momento sembrava in bianco e nero. Rivedo il film in una sala a Roma, pochi giorni prima dell’uscita ufficiale, e mi chiedo se quelle sensazioni il film se le porta addosso ancora. E la risposta è: sì.


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È un film eccessivo, enfatico, fuori misura? Sì. Ma è la sua forza. Emilia Pérez è un film transgender, anche nel senso dei generi cinematografici: in transizione, dal mélo al gangster movie, dalla telenovela al musical, dalla tragedia shakespeariana al dramma queer. È fragile e forte come Rita, l’avvocatessa interpretata da Zoe Saldaña, è potente e tenero come Karla Sofía Gascón, con le sue spalle larghe, le braccia muscolose, che canta con un filo di voce il suo desiderio di essere se stessa. 

Come in The Substance, un altro dei film che hanno segnato questa stagione, si tratta di un corpo che si modifica, si reinventa, rinasce. Ma non, come in quel caso, per il desiderio disperato di fermare il tempo, non per sfuggire alla legge inesorabile dell’invecchiamento. Qui si tratta di un corpo che si trasforma per ritrovarsi. 
Mi sono chiesto che cosa racconti, al fondo, questo film debordante di musica, passione, energia. Racconta il coraggio di abbandonare tutto ciò che siamo stati per abbracciare una nuova vita, per avvicinarci a quello che crediamo di essere davvero. E non è, questa, solo la scelta della protagonista. È anche quella di tutti gli altri personaggi femminili. 


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Emilia – una superba Karla Sofía Gascón, ma questo lo sapete già, l’avete letto ovunque – compie il viaggio più eclatante. Quello da un sesso all’altro: dalla mascolinità più tossica, quella di un boss del narcotraffico, alla femminilità più densa di speranza. Ma il suo viaggio non è l’unico
Anche Rita, l’avvocatessa interpretata da Zoe Saldaña, la fa finita con una vita da ottima professionista, con il risultato di essere solo il minuscolo tassello di un ingranaggio di corruzione e prevaricazione maschile. Sceglie, sceglie di farsi complice, confidente, depositaria del segreto. 
Ma, a ben guardare, anche il personaggio di Selena Gomez, la “vedova” del boss, vive una trasformazione e una rinascita: sceglie, anche lei, di andare in fondo a un sentimento, l’unico vissuto da protagonista. E sceglie, nella sua performance, anche l’abbandono totale, definitivo probabilmente, del suo passato di innocenza disneyana – quello che aveva già incrinato partecipando a Spring Breakers di Harmony Korine. Tutte quante si lasciano alle spalle una vita precedente. Costi quel che costi. 

Premiata insieme al cast femminile a Cannes, e da sola come miglior attrice agli Efa, Karla Sofía Gascón giganteggia, emoziona, irrompe nell’immaginario collettivo del mondo. Porta con sé forza e dolcezza, e porta con sé la sua storia personale, la sua transizione reale – da attore di una certa fama nella serialità latina ad attrice. Tutti sottolineeranno la sua potenza minacciosa nelle prime scene, in cui Karla è Juan “Manitas” del Monte, il narcotrafficante, con la voce che è un sibilo, e un look che ricorda il personaggio maschile di Border – Creature di confine (guarda la video recensione), lo straordinario secondo film di Ali Abbasi, premiato a Un certain regard di Cannes nel 2018: altro film su slittamenti progressivi dell’identità di genere. E tutti sottolineeranno la dolcezza, la grazia disperata che Karla Sofía porta nelle altre scene, quelle della rinascita. 


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Ma questo lo leggerete ovunque: e allora, proviamo a puntare anche i riflettori sulla prova immensa di Zoe Saldaña, vincitrice del Golden Globe come miglior attrice non protagonista. 
Una crescita infinita, per l’attrice che in The Terminal negava il visto per l’ingresso negli Usa a Tom Hanks, per poi raggiungere una popolarità immensa con Avatar, per poi navigare felicemente nel Marvel Cinematic Universe e affini, liberandosene di rado, ma felicemente, come nella serie televisiva From Scratch, girata a Firenze. 
Fino ad arrivare qui, dove è un fascio di nervi, un concentrato di sguardi, di gesti precisi, coreografie, una voce precisa, nitida, intonata, nelle molte canzoni di cui è protagonista. È lei, lei che balla nervosa, lei che fa da angelo custode a Emilia, è lei il nostro sguardo. E come canta!
 
E a proposito delle canzoni, quelle del film – frutto della collaborazione fra Camille Dalmais e il compositore Clément Ducol – sono una radiografia continua dell’anima: partono quasi sempre dal parlato, come staccandosi con fatica dal quotidiano, per mettere la testa fuori piano piano, poi con sempre maggiore coraggio, così che a volte quasi non capisci se parlano o cantano. 

Straordinaria, fra tutte, la canzone in cui i bambini sentono nella “zia” Emilia gli odori del padre, e li elencano, in un trascinante crescendo di piccoli dettagli. “Hueles como papà”, hai lo stesso odore di papà. E quell’odore è di montagne, di caffè, di cibo piccante, piccante, di olio del motore, di Coca cola light col limone, di ghiaccio e sudore. Di sassolini roventi per il sole, sai del sigaro di quando ci hai abbracciati l’ultima volta. L’odore è memoria, la memoria è quasi tutto quello che abbiamo, lo sapeva bene Marcel Proust


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Jacques Audiard si conferma un grandissimo autore, capace di raccontare vite che si reinventano, che rinascono dopo un annichilimento, come in Dheepan, Palma d’Oro a Cannes, che raccontava di una tigre Tamil che si ritrovava, ultimo fra gli ultimi, in Europa, coltivando il silenzio e l’arte degli invisibili. 
Audiard, che racconta di corpi che si spaccano e si disfano, si trasformano come in Un sapore di ruggine e ossa, con il corpo mutilato di Marion Cotillard, e quello massacrato dai pugni e dai calci di Matthias Schoenearts. O corpi che vengono divorati dall’acido e dall’avidità, come nei Fratelli Sisters (guarda la video recensione). Audiard che esplora, violento e tenero, il mistero di capire, al fondo del fondo di tutto, chi siamo. 

Sia quel che sia agli Oscar, Karla Sofía Gascón ha già fatto la storia. Prima attrice trans a vincere come il premio per la migliore interpretazione a Cannes, quasi è un dettaglio trascurabile se vincerà anche l’Oscar o meno. La sua voce sibilante, minacciosa nei pochi secondi in cui la vediamo nei panni di Juan “Manitas” Del Monte, e il resto del film in cui la vediamo nei panni di Emilia, speranzosa, tormentata, felice ma consapevole che il passato prima o poi chiede il conto, sono una delle cose più memorabili accadute al cinema da tempo.

Detto questo, non cerchiamo in Emilia Pérez un’analisi sociale sui cartelli della droga in Messico, sulle loro vittime, sui centomila desaparecidos finiti chissà dove. Non cerchiamo questo, in un film – peraltro girato in Francia, con attori che parlano spagnolo ma non sono messicani – in cui la situazione sociale e storica è un pre-testo, ovvero sta prima del testo. Che è il cinema puro, esplosivo, fiammeggiante che Audiard sa creare. 


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