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Madame Clicquot, un film profondamente femminista

Un film che ci ricorda che in ogni epoca ci sono state donne in grado di affermarsi senza rinunciare alla propria visione femminile, trovando la strada per non rinunciare alla propria identità. Al cinema.
di Paola Casella

sabato 14 settembre 2024 - Focus

In un’epoca di women empowerment alcuni film ambientati nel passato hanno commesso l’errore di sovrimporre le sensibilità femministe contemporanee alla trama, creando forzature antistoriche  e attribuendo ai personaggi femminili caratteristiche troppo radicalmente rivoluzionarie per l’epoca raccontata. Madame Clicquot non commette questo errore, ma tratteggia il ritratto di una vera donna di potere come ne sono realmente esistite anche in epoche lontane senza snaturare gli eventi o i comportamenti della protagonista colorandoli di senno di poi. 

La storia di Madame Clicquot si basa sulla biografia “The Widow Clicquot”, definita dal New York Times una “enobiografia” e firmata dalla scrittrice americana Tilar J. Mazzeo, esperta sia di storiografia che di vini. Il film diretto da Thomas Napper fa perno a sua volta sulla sceneggiatura a firma femminile della regista e autrice Erin Dignam, da sempre attenta alle tematiche di genere. La chiave di lettura centrale è dunque la contrapposizione fra la vedova Clicquot e un mondo, come quello dei produttori di vino, allora completamente declinato al maschile, quando invece oggi la presenza femminile si avvia a diventare pervasiva. 

Alla base della determinazione di Barbe-Nicole Clicquot Ponsardin c’è il rapporto paritario con il marito Francois, proprietario degli ettari di vitigni che gestisce da visionario sperimentando con innesti innovativi. Francois, come si vede in numerosi flashback, considera Barbe-Nicole “la sua compagna in tutto” in base ad un concetto egalitario, quello sì davvero insolito per i primi dell’Ottocento. Quando Francois muore la vedova, appena 27enne, decide, contro il volere del suocero che amministra la tenuta, di non vendere gli ettari di vigneti e di continuare a prendersene cura, come del resto ha fatto fino a quel momento, a fianco di Francois.


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I responsabili delle vigne la mettono subito in minoranza, sminuendo le sue capacità e ricordandole quale sia il suo posto, secondo i dettami sociali dell’epoca. Ma lei, forte della fiducia del defunto marito che le ha lasciato le terre proprio affinché non le vendesse e facesse prosperare i vigneti. La vedova Clicquot decide che occuparsene “è compito suo”, contrariamente ai dettami dell’epoca. Di più: vuole lasciare una traccia affinché “qualcuno sappia che siamo stati qui”, senza “accontentarsi” di essere la madre della piccola Clementine. E saprà essere parimenti audace ed elegante, creando vini dotati (come lei) di struttura e profondità. 

La vedova Clicquot trasformerà un’impresa in perdita in un’attività estremamente redditizia, non senza aver attraversato dubbi e difficoltà, e per quanto le compete impedirà anche la monopolizzazione del mercato francese del vino, in mano a pochi (Moet ad esempio voleva comprare i suoi vigneti) e ostacolati nell’esportazione dagli embargo stabiliti da Napoleone contro i suoi nemici. Barbe-Nicole saprà osare e sperimentare, e soprattutto rifiuterà l’idea rigidamente gerarchica (leggi: maschile) della gestione, insistendo per una gestione olistica (leggi: femminile) basata sulla collaborazione e sull’ascolto, cui aggiungerà polso e decisione, di fatto senza cercare l’approvazione dei suoi detrattori. 

È in questo che la storia della vedova che ha dato il suo nome ad uno degli champagne più rinomati di Francia è profondamente femminista: perché ci ricorda che in ogni epoca ci sono state donne in grado di affermarsi senza rinunciare alla propria visione femminile, senza spacciarsi per maschi in gonnella, ma trovando la strada per non rinunciare alla propria identità


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