Un film che racconta un pugile, ma in cui la boxe è poco più di un pretesto, per raccontare il momento in cui si fanno i conti con la propria vita. Al cinema.
di Giovanni Bogani
Un film lancinante, potente, che ha il respiro delle grandi narrazioni degli anni ’50. Un film immerso in un bianco e nero che dipana ricordo, nostalgia, cinema, struggimento. Un film che racconta un pugile, ma in cui la boxe è poco più di un pretesto, per raccontare il momento in cui si fanno i conti con la propria vita.
Il giorno dell'incontro di Jack Huston, nipote di John, il regista del Mistero del falco e di mille altri film. Day of the Fight, stesso titolo di un film di Stanley Kubrick, un cortometraggio che Kubrick diresse nel 1951, e che ha in comune con questo film lo stringersi dentro una sola giornata, e il raccontare un pugile, a New York, filmato in bianco e nero.
Sembra fuori dal tempo, da qualsiasi tempo, Il giorno dell'incontro. Nel suo procedere dentro una New York anni ’80 di docks, di strade di Brooklyn dense di graffiti e di homeless. Un film che va, con il suo protagonista Michael Pitt, lungo la linea 2 della Subway, quella metropolitana dal tragitto infinito, che va da Brooklyn al Bronx. Un film che parla di boxe, sì, ma soprattutto di conti con la vita. Conti da regolare. In un bianco e nero che è più cinema di qualsiasi cosa abbiamo visto negli ultimi mesi.
Michael Pitt appare, lontano anni luce dal ragazzo che avevamo incontrato in The Dreamers di Bertolucci. Nel 2022, le cronache ce lo avevano raccontato dopo un suo arresto, con l’accusa di aggressione e furto. Era seguito un ricovero in un istituto mentale. Sembravano lontani gli anni in cui era una rivelazione, in cui aveva interpretato Kurt Cobain in Last Days di Gus van Sant. E tutto questo dolore, questa rabbia, questo deragliamento si vedono, in lui, nel suo sguardo, nel suo modo di recitare. Sembra quasi, in alcune scene, che faccia fatica a pronunciare le parole, come se ci fosse un nodo troppo forte da sciogliere, prima di parlare.
Lo vediamo correre, all’inizio del film, come Sylvester Stallone all’alba, nelle strade di Philadelphia, in Rocky di John Avildsen, il padre e la madre di ogni film sul pugilato. E non è un caso, certamente. Poco dopo, lo vediamo bere un bicchierone con delle uova appena tirate fuori dal frigo. Sbrodolandosi, come Stallone in Rocky, in quella scena in cui aveva messo la sveglia in piena notte, per andare ad allenarsi. E aveva ingurgitato sei uova, dal frigo allo stomaco, sbrodolandosi tutto sulla tuta grigiastra, uguale a quella di Pitt in questo film.
La fotografia di Peter Simonite è accorta, precisa. Più che a Toro scatenato, ovvio termine di paragone, fa pensare ai grigi delle foto di Bruce Weber, e Michael Pitt ci fa pensare al Chet Baker che il fotografo ci aveva consegnato, ancora bellissimo ma già devastato. Una fotografia che sembra quasi farci percepire il freddo di una New York invernale.
E poi c’è la storia. Tutta in un giorno, un giorno che riassume una vita. Un giorno per saldare i debiti con la propria esistenza. Un giorno per fare pace con se stessi, prima che con gli altri. Un giorno per guardare in faccia le proprie colpe, i propri fallimenti, per cercare un riscatto. Se ci deve ricordare qualcuno, questo Michael Pitt, più che uno dei molti pugili che la storia del cinema ci ha consegnato, viene in mente il Mickey Rourke di The Wrestler di Darren Aronofsky, o persino il Franco Citti di Accattone di Pier Paolo Pasolini.
La struttura del film è questa, una sorta di via crucis attraverso varie stazioni. A rendere memorabile ogni scena, ogni incontro, oltre ai dialoghi, ci sono almeno tre interpretazioni memorabili. Steve Buscemi, Ron Perlman e Joe Pesci – anche produttore del film – si portano dietro ciascuno i loro film, il loro sentimento del vivere. E anche di più.
Buscemi, nel ruolo del capocantiere, si porta dietro i mondi di Tarantino e dei fratelli Coen, il fatalismo del Grande Lebowski. Ron Perlman, che nel Nome della rosa gridava “penitenziagite!”, nel ruolo del frate deforme e semplice di mente Salvatore, evoca i grandi vecchi brutali, quelli che stanno nell’angolo del ring, pronti a dirti “fuck you!” sul muso e ad abbracciarti un attimo dopo, come Burgess Meredith in Rocky.
Ma soprattutto è Joe Pesci che dà vita a una scena impressionante, senza dire una parola. Un piano d’ascolto infinito, bloccato in una residenza per anziani, con il gesto della mano destra a “contare gli spiccioli”, tipico dei parkinsoniani, la parola che non esce, la fissità dello sguardo, tutto racchiuso dentro, senza poter uscire. Ma è chiaro che capisce tutto, tutta la confessione del figlio, il quale gli dice cose che non gli aveva detto mai. Afasico, e tuttavia mai così eloquente, da Oscar.
Viene voglia di dire che Il giorno dell'incontro è un film cristiano. Non tanto perché appare un prete, amico d’infanzia del protagonista, un prete che gli dice le cose con ironia, con affetto, e anche a brutto muso, come in Angeli con la faccia sporca di Michael Curtiz. È un film cristiano perché parla del sacrificio, del senso della vita come dono verso gli altri. E perché mette in scena, sostanzialmente, un Getsemani. Ovvero, quel momento in cui Cristo fa i conti con il dolore, il dolore a cui va incontro.
Un ultimo accenno. Alla colonna sonora. Pazzesca, fin dall’inizio, con quella canzone di Sixto Rodriguez, il folk singer di Detroit, figlio di operai, che fu una star a sua insaputa, famoso più di Bob Dylan, in Sudafrica, dove diventò un punto di riferimento nella lotta all’apartheid. Ma lui non ne seppe nulla, e continuò a fare l’operaio a Detroit, finché non lo scovò la troupe di un documentario, Sugar Man. In apertura del film c’è la canzone di Sixto Rodrigues "Crucify Your Mind", ed è il primo brivido. Ma quelli definitivi arrivano quando Nicolette Robinson, che nel film è la ex compagna di Pitt, interpreta "Have You Ever Seen the Rain?" dei Creedence Clearwater Revival. Quando sarà finita, dicono, pioverà un giorno di sole, dice il testo. È, in pratica, un riassunto perfetto di tutte le linee che innervano il film.