Il legame intenso e profondo ma anche soffocante e al limite della morbosità è al centro del secondo lungometraggio di Enrico Maria Artale, premiato a Venezia 80 per la Miglior sceneggiatura e l’interpretazione femminile nella sezione Orizzonti. Da oggi al cinema.
di Simone Emiliani
“Tu non mi racconti mai i sogni che fai” dice la madre a Julio. “Perché non li faccio” risponde lui. Si muove su un piano di continuo squilibro rapporto emotivo tra i due protagonisti. L’uomo, che ha quasi quarant’anni, vive ancora con lei, una donna colombiana dalla forte personalità. Il loro legame è intenso, profondo ma anche soffocante e al limite della morbosità. Nella casa non ci sono spazi privati né momenti di intimità.
Tutta la vita di Julio è vista, sentita, giudicata. Non ha vie di fuga e neanche una vita personale. I due condividono tutto, come la passione per i balli latino-americani come si vede all’inizio di El paraíso in cui sembrano quasi una coppia, come si vede nel modo complice ma sospettoso in cui l’uomo la guarda mentre sta ballando con un’altra persona.
Ma hanno anche un’altra cosa in comune: sono entrambi corrieri della droga. Lo squilibrio evidente, ma nascosto, in quella casa sul fiume già troppo stretta, carica di ricordi, così piena di passato da negare il futuro a Julio. L’arrivo di Ines, una giovane ragazza colombiana al suo primo viaggio come “mula” della cocaina, fa saltare tutti i piani.
C’è un prima e un dopo in El paraíso: la vita condivisa e quella da solo. Il presente, nel corso del film, assume poi le forme di un nostalgico ricordo. Al secondo lungometraggio realizzato a dieci anni di Il terzo tempo, Enrico Maria Artale lascia intravedere la possibilità di un riscatto come aveva fatto con il protagonista Samuel nel suo film d’esordio con il rugby.
Il ballo finale di Julio sui titoli di coda delinea, anche in questo caso, l’eventuale presenza di un ‘terzo tempo’ nella sua vita, forse fuori dal luogo in cui è sempre vissuto, anche nella camminata in una strada di notte nella parte finale. Il modo come vengono mostrati gli spazi è fondamentale nel cinema del regista perché c’è una connessione strettissima tra le azioni e gli stati d’animo del protagonista.
Nel primo, quello nella sua casa a Fiumicino e dintorni, Julio segue le stesse abitudini quasi al limite della noia, senza nessuna scossa fino all’arrivo di Ines, che ha rappresentato l’illusione di un cambiamento che poi non c’è stato. Da quel momento però nulla è più come prima. Il secondo invece è tutto da scoprire. Gli elementi di finzione, proprio nella parte finale, si disperdono. Artale accompagna il suo personaggio, anzi si perde con lui. Il film diventa una specie di documentario da viaggio e, come nel cinema di Corso Salani, lo sviluppo successivo della vicenda diventa a questo punto imprevedibile.
Tra Julio ed Edoardo Pesce non c’è più nessuna distanza. La sua inquietudine e rabbia implosa si portano ancora i segni della sua notevole interpretazione in Dogman (guarda la video recensione). In El paraíso è piena di sfumature, proprio per evidenziare il continuo contrasto tra la voglia di assecondare i propri desideri e il senso di colpa nei confronti della madre come nella scena in cui Ines e Julio appaiono felici durante un giro in barca, che ha lo stesso nome del titolo del film, mentre la madre se ne sta in disparte con un comportamento ostile.
I segni della tragedia sono come implosi, con tracce di un noir nel modo in cui mostra l’ambiente criminale e quelle di un melodramma con la dipendenza tra madre e figlio che si avverte nei silenzi, negli scatti di rabbia, nei gesti autodistruttivi come la macchinetta del caffè che ancora brucia afferrata con foga da Julio davanti ai due poliziotti che ha fatto entrare a casa sua. “Possiamo davvero tracciare – si chiede Artale - una linea che distingua amore e follia, la forza irriducibile del sentimento dalla paura profonda di restare soli per sempre?”
El paraíso è stato presentato all’80. Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura e quello per la miglior interpretazione femminile ottenuto da Margarita Rosa De Francisco nel ruolo della madre. La sua interpretazione assieme a quella di Pesce sembra andare oltre la finzione per l’intensità e la verità con cui emerge la loro storia di un amore intenso e malato che resiste per sempre.