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Giacomo Abbruzzese: «Disco Boy, il mio film politico senza passaporto che ha incantato Johnnie To»

«La potenza del cinema sta nel saper incrociare gli sguardi». Abbiamo incontrato e intervistato il regista dell'unico film italiano in Concorso alla Berlinale 2023, premiato per la Miglior Fotografia e da giovedì 9 marzo a cinema.
di Claudia Catalli

Giacomo Abbruzzese 1983, Taranto (Italia). Regista del film Disco Boy.
lunedì 6 marzo 2023 - Incontri

Era l’unico film italiano in concorso alla 73ma Berlinale e ha lasciato il segno, portando a casa l’Orso d’Argento per il Miglior Contributo Artistico. È Disco Boy di Giacomo Abbruzzese, che incontriamo nella sede romana di Lucky Red che distribuisce il film dal 9 marzo.

La nostra intervista parte dai dati concreti: dieci anni per mettere in piedi questo film, costato 3 milioni e mezzo di euro e realizzato su una serie di location diverse (Polonia, Parigi e Iles de la Riunion, vicino al Madagascar). Un’impresa sulla carta impossibile, che tuttavia Abbruzzese ha avuto la determinazione di portare avanti e il talento di firmare “nonostante tutto”: la pandemia, le ritrosie dei produttori, i consigli di tagliare una parte consistente della storia, il fatto che gli attori recitassero in lingue diverse, i disagi nella giungla e molto altro ancora.

Partiamo dalla Berlinale, che esperienza è stata?
Emozionante, specie quando Johnnie To mi ha detto che per lui Disco Boy era l’Orso d’oro.

Il suo film si dipana su due binari paralleli narrativi che si uniscono solo a metà film. È per questo che ha incontrato resistenze multiple da parte dei produttori?
Oggi fare un’opera prima così ambiziosa e costosa rasenta l’impossibile, abbiamo cercato tutti i fondi possibili immaginabili, avuto una coproduzione di quattro paesi e tanti cambi di produttori. C’era chi mi diceva che il film aveva binari troppo separati, chi che c’erano dentro troppe cose, io insistevo a dire che a tenere insieme tutto doveva essere la regia, lo sguardo. Non volevo fare, come mi era stato proposto, due storie che continuamente facevano avanti indietro con montaggi alternati, l’abbiamo già visto mille volte. Preferivo impostare una storia, abbandonare il personaggio e raccontarne un’altra, che poi ad un certo punto torna a incrociarsi con la prima. 

La storia del bielorusso Aleksei che fugge dal suo passato e poi la storia di Jomo, combattente del delta del Niger...
Raccontarli entrambi e incrociare le loro storie era la scommessa del mio film. Ho lottato anche contro chi voleva a tutti i costi la storia d’amore finale, o chi mi suggeriva di tagliare tutta la parte “africana”. Ci sono stati tanti tentativi di normalizzarlo e omologarlo, ma ho rischiato tanto e oggi Disco Boy è il risultato di quello che veramente volevo realizzare.

La parte “africana” era fondamentale per il discorso centrale sull’alterità che porta avanti il film.
Proprio così, il concetto profondo di base è la questione dell’altro. Nei film di guerra l’altro esiste per un minuto appena, come vittima o come nemico, non esiste mai pienamente con una propria dignità emotiva e un suo racconto. Io volevo darglieli e, in un mondo pieno di narrazioni a senso unico, ribadire che la potenza del cinema sta nel saper incrociare gli sguardi.

Com’è stato girare nella giungla?
In quella di Iles de la Riunion abbiamo girato per due settimane ma era “safe”, il più grande pericolo era il morso di un ragno tutt’altro che mortale. La difficoltà, semmai, era sezionare tutta l’isola in cerca di piccoli fiumi in cui girare. Avevo un solo giorno per fare l’ultimo check per poi iniziare le riprese il giorno dopo e quel giorno il mio volo andò in overbooking. Ho dovuto prendere un volo il giorno dopo e dopo 12 ore di viaggio ho iniziato subito a girare.

Da una parte c’è il rivoluzionario o ecoterrorista africano, dall’altra un legionario apolide che combatte una guerra che non è la sua: entrambi sono guerrieri “loro malgrado”.
Sono stati costretti a prendere le armi per poter immaginare una vita migliore. Oggi raccontiamo quasi esclusivamente le sofferenze dei civili e delle vittime, dimenticandoci che spesso quelli che stanno al fronte non sono necessariamente fanatici o esaltati. Mi interessava raccontare questa umanità non catalogabile: non sono buoni o cattivi, sono umani. E così il personaggio africano non è un migrante, ma uno che difende la sua terra ad ogni costo, resistente o ecoterrorista a seconda dei punti di vista. Di certo era una prospettiva insolita e anche abbastanza inedita al cinema. 

Ci parli del cast: come ha scelto Franz Rogowski?
L’avevo visto in Victoria e mi aveva impressionato molto la sua carica di forza e di violenza senza mai andare nel clichè, con il volto innocente e segnato. È un attore capace di recitare con tutto il corpo: nella giungla con un fucile in mano è assolutamente credibile.


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