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Non solo vertigini visive. Beau ha paura e il cinema di Ari Aster conquistano con l’uso sapiente del suono

Per Ari Aster il “sound field” è materia imprescindibile, sia drammaturgicamente che narrativamente. Ce lo dimostra fin dalla sequenza d’apertura, impossibile da immaginare senza la potente traccia audio che l’accompagna. Al cinema.
di Anna Maria Pasetti

Joaquin Phoenix (Joaquin Raphael Phoenix) (49 anni) 28 ottobre 1974, San Juan (Portorico - USA) - Scorpione. Interpreta Beau Wassermann nel film di Ari Aster Beau ha paura.
venerdì 5 maggio 2023 - Focus

Non solo vertigini visive. Il perturbante cinema di Ari Aster non avrebbe forse raggiunto lo statuto di “cult” senza le scelte sofisticate e l’uso sapiente in ambito di apparato sonoro. Tali scelte ne definiscono lo spazio di tensioni e inquietudini che informano la sua cifra estetica, già riconoscibile nonostante abbia finora realizzato solo tre lungometraggi. Del resto non esiste autorialità cinematografica - di qualunque epoca, provenienza e genere, specie nei dintorni dell’horror - che non fornisca seminale importanza al fuori campo, e questa è al più delle volte connessa alla sostanza sonora.  

Per Aster il “sound field” è materia imprescindibile, sia drammaturgicamente che narrativamente, almeno quanto lo è - si diceva - il “visual field”, vuoi che sia in- o fuori-campo.  

Proviamo infatti a immaginare la scena di apertura di Beau ha paura privata della potente traccia audio che l’accompagna. Da un buio squarciato nervosamente da lampi di luce si intuisce” una realtà caotica di cui però non si comprende affatto il contesto né ancor meno la traumatica drammaticità. Solo grazie ai suoni e ai rumori direzionati dagli squarci di luce sul buio la situazione si definisce, identificandosi nell’evento unico e irripetibile nella vita di ciascuno: la venuta al mondo, l’atto dell’essere partorito. 

La dimensione sonora di questa opening scene è imponente e trasferisce nello spettatore la sintesi emotiva di quanto accadrà nelle successive (3) ore di film, così come negli anni a venire del protagonista Beau, ragazzo prima e uomo poi, complessato e mentalmente disturbato. I tormenti della sua psiche trasferiti direttamente nell’anima sono espressi nel film quasi essenzialmente attraverso la dimensione sonora, tanto acustica quanto musicale, a firma di Bobby Krlic, in arte The Haxan Cloak

Il caos intimo è ferocemente tradotto in rumori striduli, grida diffuse, impeti acuti in un mescolamento di sovrapposizioni confuse e indistinte. In quanto capaci, per definizione, di viaggiare nell’aria senza contorni definiti (a differenza delle percezioni visive) le vibrazioni acustiche di Beau ha paura diventano esse stesse causa ed effetto di quella “paura” indicata nel titolo. 

Al suono impressionista rappresentato - ad esempio - dalla definizione sonora della giunga urbana della prima parte del film, e anche di diverse altre scene più “lineari”, si contrappone il suono espressionista di rumori e brani musicali distonici rispetto alle immagine cui si accompagnano. Quest’ultimo non solo è più interessante del primo, ma segnala con chiarezza il carattere acustico del cinema di Aster, rintracciabile infatti non solo in quest’ultimo film ma anche nei precedenti, specie in Midsommar (guarda la video recensione) (2019). E tale prende forma soprattutto nel sottofondo sonoro, una costante e perturbante materia atonale che opacizza il silenzio, assumendo l’identità di un “disturbo” ambientale e psichico, di una paranoia ossessiva e contagiosa.  

Per tornare sull’opera seconda del regista statunitense, la scena di apertura che giustappone immagini di maestosi paesaggi montani innevati non avrebbe alcun senso se non fosse acusticamente accompagnata da un sottofondo appena accennato ma distonico rispetto alla bellezza immaginifica proposta: è il “classico” preludio sonoro alla tensione orrorifica che pervaderà tutto il film, qualcosa di non originale rispetto al genere, ma che Aster appunto sa ben proporre declinandolo secondo una cifra molto personale. 

In Beau ha paura la paranoia sonora è accostata anche al rumore del mare, che in un certo segmento del film fornisce il proprio ritmo musicale a una serie di scene contigue, ovvio sintomo dell’elemento acqueo ove la vita prenatale si genera ed è protetta, ma che rischia anche di esserne carnefice a ricordo di un trauma ancestrale.  

Indubbiamente Ari Aster non risparmia gli eccessi, anzi ne usa e abusa in funzione di un cinema che mescola i generi dell’inquietudine (horror, thriller psicologici e mistici) e in tal senso utilizza il sound design e il sound mixing al meglio delle loro potenzialità. 


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