Come nel film di Bong Joon-ho, anche qui una 'povera' penetra la casa e il mondo, il dominio dei 'ricchi', insinuandosi nella loro vita, con un abbraccio che sembra salvifico, e invece è mortale. Al cinema.
di Giovanni Bogani
Una famiglia avvelenata, una outsider che vi si infila dentro, ingenua, naïf, tanto innocente da confonderci. E una villa in Costa azzurra che sembra un Museo di storia naturale, con decine di animali impagliati, e ogni ammennicolo Kitsch che si possa immaginare. Gli occhi della ragazza appena arrivati, azzurri e smarriti come quelli della Secretary, il film di Steven Shainberg con Maggie Gyllenhaal.
Insomma, ce ne sono di spunti per sentirsi in un viaggio sospeso fra il thriller e il grottesco, fra Chabrol e l’Hitchcock che girò in Costa azzurra, e dalle venature erotiche nascoste nel profondo. Ma cominciamo dall’inizio, a guardare questo film pieno di sfaccettature.
È un inizio spoglio, inquadrature disadorne, alla Dardenne. Uno spogliatoio femminile, nudità senza nessun erotismo: sono operaie di un laboratorio che confeziona sardine. Le donne si rivestono, dopo il lavoro: sembra quasi di sentir loro l’odore di pesce che rimane addosso. Sensazione di claustrofobia, di imprigionamento. E poi un altro interno, un’altra prigione: vera, stavolta. Una donna che aspetta una visita che non arriva.
Infine, il terzo carcere, quello più sontuoso e più spaventoso. Una villa in Costa azzurra, a Porquerolles. Dove alcune donne sembrano divorare la carne di un animale ancora vivo: il grande vecchio ricchissimo, iracondo, e morente. È lì che si presenta Stéphane, operaia della fabbrica di sardine, amante della donna che aspetta la sua visita in prigione. Va a presentarsi a quel vecchio, il padre che non ha mai conosciuto.
Attorno al vecchio – un magnifico Jacques Weber, autoritario, titanico e rude come un Dépardieu, ma fragile e miserabile – una moglie che compra compulsivamente alle televendite, una figlia arrivata dall’Australia – Doria Tillier de La belle époque (guarda la video recensione) – per prendere in mano il patrimonio di famiglia, una governante che si appropria di quello che la sua padrona compra, e dimentica di aver comprato. Il quadro di una società malata di potere e di denaro.
Un mélo alla Almodovar? Un dramma sociale, alla Dardenne, appunto, o – trattandosi di sud della Francia – alla Guédiguian? Niente di tutto questo. Semmai un intrigo diabolico, feroce, cinico, alla Parasite (guarda la video recensione) di Bong Joon-ho. L’ingenua Stéphane – intepretata da Laure Calamy – entra in quella villa, in quella fortezza inespugnabile, per destabilizzare tutto. Come la Locandiera di Goldoni, manipola senza averne l’aria, accattivandosi simpatie, lavorando ai fianchi una famiglia in cui tutti si odiano, e tutti hanno un punto debole. Ma anche lei ne ha uno: ha una sorta di “sindrome dell’impostore”, tende a credere alle sue stesse menzogne. E questo rende il film ancora più interessante.
Presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti Extra, Un vizio di famiglia è costruito su uno schema simile a quello del precedente film di Sébastien Marnier, L’ultima ora (guarda la video recensione), del 2018: anche lì, l’arrivo di un outsider, un insegnante, veniva a turbare un ambiente che sembrava autosufficiente. E anche qui, le sorprese sono continue, e ti portano a perdere la bussola del tuo giudizio morale. Chi è il carnefice, chi è la vittima?
Dicevamo di Parasite. Anche qui, una “povera” penetra la casa e il mondo, il dominio dei “ricchi”, insinuandosi nella loro vita, con un abbraccio che sembra salvifico, e invece è mortale. Ma potremmo anche essere dalle parti di Julia Ducournau in Titane, con questo padre che stringe a sé una figlia piovuta dal nulla, senza nessuna prova che sia sua figlia davvero, e la stringe in un abbraccio che è come la morsa di un segreto, un abbraccio che non sai se sia disperato o erotico. E naturalmente, non abbiamo nominato l’autore che sta nell’ombra di ogni inquadratura: Claude Chabrol, con i suoi ritratti di provincia malata e assassina. Ma questo, lo hanno citato e lo citeranno tutti.
Tanti plot point, tanti colpi di scena. Ma attenzione: questo non è un film che vive solo di sceneggiatura. Sébastien Marnier compie scelte precise, inattese di regia: uno split-screen durante una riunione di famiglia, come a sottolineare la distanza incolmabile fra persone alla stessa tavola, o meglio ancora: come se fossero una galleria di sospetti. O il modo in cui inquadra il primo incontro fra Stéphane e la “matrigna” Louise, lavorando di montaggio con gli sguardi di due animali impagliati. A volte sottolinea persino troppo: le inquadrature della pianta carnivora che divora l’insetto, palesi metafore di quello che sta accadendo.
Ma certo, ciò che impressiona di più nel film è la performance del cast. Jacques Weber sospeso fra una titanica antipatia e la debolezza più disarmata. Dominique Blanc che ricorda la Bette Davis di Che fine ha fatto Baby Jane?.
Ma gli occhi vanno sempre su Laure Calamy. Nei primi minuti, nel laboratorio dove si inscatolano le acciughe, la vediamo pura, ingenua, oppressa. Piano piano scopriremo però un’altra Stéphane. Che, per così dire, si sovrappone alla prima senza cancellarla. Così che, se compie un atto feroce, lo fa con una sorta di smarrimento negli occhi. Se manipola le emozioni del “padre”, lo fa con un atteggiamento di sottomissione. Laure Calamy ci offre una grande lezione sull’opacità dell’io, sulla moltitudine di personalità che abitano in ciascuno. E alla fine, la semplicità delle sue motivazioni la rendono toccante, persino tragica.