Un iper-dialogo che si muove tra la Bibbia e "Moby Dick". In concorso a Venezia 79 e prossimamente al cinema.
di Roberto Manassero
Tra la Bibbia e “Moby Dick”, attraverso il lavoro del commediografo Hunter (che firma la sceneggiatura), in The Whale Aronofsky riprende il tema per lui abituale della deriva fisica come tramite dell’ascensione e della redenzione spirituale.
Le due ore del film, pensato e realizzato durante le restrizioni per la pandemia, come dimostra la sostanziale unità di spazio – raccontano l’ultima settimana di passione di un uomo finito, il suo tentativo di compiere finalmente del bene. Lo fanno in maniera concitata, iper-dialogata, eccessiva a livello di recitazione e più scontata a livello di messinscena.
E l’inevitabile accelerazione drammatica del finale, con una conclusione dai toni decisamente eccessivi, sgancia il film dalla tradizione letteraria e culturale americana, privando Charlie della sua unica forza, vale a dire la consapevolezza del suo corpo anche nei momenti d’abbandono, e consegnandolo finalmente libero a un destino in realtà posticcio.