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Peter von Kant, Ozon omaggia e ritrae Fassbinder. Meno lacrime amare, stesso cinema vertiginoso

Mescolando precipitati di vita reale e vita immaginata, il regista francese inietta un’energia nuova al malinconico huis-clos dell'autore tedesco, restituendo mezzo secolo dopo a questo alter ego la sua identità maschile e la sua febbrile attività di regista e drammaturgo. Dal 18 maggio al cinema.
di Marzia Gandolfi

Denis Ménochet (47 anni) 18 settembre 1976, Enghien-les-Bains (Francia) - Vergine. Interpreta Peter von Kant nel film di François Ozon Peter Von Kant.
martedì 16 maggio 2023 - Focus

Che conosciate un po’, molto o per niente Rainer Werner Fassbinder, che abbiate visto o no Le lacrime amare di Petra von Kant, non vedrete in ogni caso lo stesso film guardando Peter von Kant di François Ozon. Ma quello a cui assisterete è un teatro domestico altrettanto vertiginoso, attraversato dalle tempeste del desiderio e di un’invenzione creativa portata all’incandescenza. 

C’è (quasi) tutto nella replica di Ozon: il grande letto accogliente, il tappeto bianco a pelo lungo, la riproduzione ingrandita di “Bacco e Mida” di Nicolas Poussin, la macchina da scrivere e il ticchettio minaccioso dei suoi tasti, il telefono grigio lucido con la suoneria lacerante, l’alcool, le lacrime, il dramma. 

L’appartamento sembra proprio quello del 1972, a eccezione di Petra che è diventata Peter (Denis Ménochet), Marlene, l’assistente-schiava e muta, che è diventata Karl (Stefan Crepon) e Karin, la giovane modella oggetto del suo desiderio, che è diventata Amir (Khalil Ben Gharbia). 

Da Petra a Peter ma la trama resta la stessa, si tratta sempre di consumare una relazione distruttiva sotto lo sguardo di un factotum sottomesso. Si tratta ancora di mettere in scena lo spettacolo di un quotidiano trasformato in una performance estrema. Ma Peter von Kant non è un pastiche o una copia, è piuttosto una “bella infedele”, secondo la distinzione crociana, un esercizio di ammirazione riuscito che gioca tra osmosi e distanza. Una buona traduzione deve essere letta nella misura di una “approssimazione”, la rievocazione dell’opera originale secondo lo spirito del traduttore e la rivendicazione di una sua parziale autonomia. Primo grado: lei diventa lui, lei è una stilista in voga, lui un regista celebre in piena crisi creativa, lei una lesbica al vetriolo, lui un omosessuale isterico. 

Petra von Kant, nata al principio degli anni Settanta dall’immaginazione di Fassbinder, fu l’eroina di una pièce e poi di un film: Le lacrime amare di Petra von Kant. Tutto lasciava credere che questa creatrice di moda, dispotica e travolta da una insana passione per la sua musa, fosse il doppio del regista tedesco, mostro di produttività ipersensibile e attivo su tutti i fronti. Da qui l’idea di Ozon di restituire mezzo secolo dopo a questo alter ego la sua identità maschile e la sua febbrile attività di regista e drammaturgo. Votato all’arte fino al midollo, il suo Peter von Kant, è una creatura singolare, una chimera aggrappata a una vecchia invenzione.


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In foto Denis Ménochet e Isabelle Adjani in una scena del film Peter von Kant di Françoiz Ozon.

Abitato da Denis Ménochet, il personaggio (ri)vive in un luminoso loft di Colonia e parla francese, rivendica i comportamenti trasgressivi di Fassbinder e la somiglianza fisica, la stessa statura imponente ma negli occhi una dolcezza di infanzia contraria al furore tragico dell’autore, immaginato e precipitato nell’impressionante vortice del suo successo e delle sue pulsioni, dove il comportamento suicidario è sempre in agguato. 

La trasposizione funziona e disegna il ritratto di un gigante del moderno cinema tedesco in tutte le sue sfumature, quelle amabili e quelle detestabili. Ozon lo provoca, facendo entrare in scena Amir, ventiduenne indolente e insolente, ambizioso e bello come un diavolo. Peter farà di lui una star, Amir farà la felicità di Peter, mille amplessi dopo tutto deraglia. Al primo segno di celebrità, il ragazzo rovescia gli equilibri, si affranca mentre il suo mentore si macera nella gelosia e poi affonda nel dolore più nero. 

Questo studio dei rapporti di potere in una coppia evoca un altro melodramma ardente di Fassbinder, La paura mangia l’anima, dove una vedova tedesca stringe una relazione passionale con un immigrato marocchino, più giovane di lei e interpretato da El Hedi ben Salem, uno degli amanti dell’autore. Ozon dona il suo cognome al personaggio di Amir. 

Mescolando precipitati di vita reale e vita immaginata, Ozon inietta un’energia nuova a questo huis-clos sprofondato nella malinconia. Più raccolto, meno letterale, ostentatamente ludico, Peter von Kant non abdica completamente la dimensione melodrammatica della materia originaria. Le lacrime saranno forse meno amare, ma tutto è ugualmente stordente, tra Denis Ménochet e Khalil Ben Gharbia, tra Isabelle Adjani e Hanna Schygulla, ‘in persona’. Compagna di creazione di Fassbinder, torna come un fantasma nella ‘stessa’ storia e incarna la madre di Peter, che culla, che quieta perché ‘sa bene’ la pena inflitta.

Ma la magnifica ossessione resta lui, Amir, che Peter filma in 16 mm e Karl racconta, tagliando, incollando e montando immagini, fotogrammi, brani di vita e di arte che traspirano dal protagonista come il gin tonic che beve al risveglio. Ozon filma quella carneficina sentimentale con empatia, rende conto, ancora una volta attraverso la canzone, di un tradimento consumato e di un abbandono senza appello. 

In fondo al bicchiere e a tutto il dolore resta l’arte, unica risposta all’infelicità. Alla finestra, Peter sorride adesso al tormento come faceva ieri al suo amore, sorride “comme au théâtre” e in una canzone di Cora Vaucaire, la dama bianca di Saint-Germain-des-Prés, che aveva gli occhi limpidi di Denis Ménochet e vestiva di bianco come Peter von Kant. 


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