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Eo, un insieme libero di invenzioni, effetti e colori accesi. Talvolta estremi ma sempre coraggiosi

Un tour de force visivo volutamente brutale e grezzo, che nel momento in cui prende Bresson a modello cerca anche di aggiornarne il rigore al mondo delle immagini contemporanee. Premiato a Cannes e dal 22 dicembre al cinema.
di Roberto Manassero

mercoledì 21 dicembre 2022 - Focus

L’asino più famoso della storia del cinema resta ancora quello di Robert Bresson, il Balthazar di Au hasard Balthazar (l’anno 1966, il miglior di sempre per la storia del cinema, quello di Persona, per intendersi, o Play Time): dolce, passivo, dagli occhi senza fondo, testimone muto delle miserie umane.

È dichiaratamente a lui e al film del maestro francese che il grande vecchio del cinema europeo, Jerzy Skolimowski (85 anni il prossimo maggio), si è ispirato per il suo ritorno alla regia dopo Essential Killing (2010) e 11 minuti (2012), entrambi reduci dalla Mostra di Venezia. Il film si chiama EO e protagonista è anche in questo caso un asino, il cui verso caratteristico offre il titolo onomatopeico: E-O. EEE-OOO, un grido di dolore, di rabbia, di reazione alla violenza del mondo, e talvolta anche alla sua inattesa bellezza.

L’asino di Skolimowski – che presentando il film a Cannes ha detto di aver pianto una sola volta al cinema, proprio vedendo da giovane Au hazard Balthasar, e di aver conservato per sempre il ricordo di quelle lacrime – in questo caso non ha una controparte femminile, come succedeva nel capolavoro di Bresson, dove la coprotagonista, e padrona di Balthazar, era interpretata dall’indimenticabile Anne Wiazemsky.

EO è solo, piccolo, indifeso, ma nonostante questo timidamente resistente e indistruttibile. Nato in un circo, sfruttato come attrazione per bambini, l’animale passa di mano in mano, di avventura in avventura, dalla Polonia all’Italia, lungo strade e autostrade, tra boschi e cascate, al fianco di una squadra di calcio, nella villa di una contessa, in compagnia di un prete.

Il film, prodotto dal grande Jeremy Thomas (tra i massimi e più originali produttori di sempre) e scritto da Skolimowski con Ewa Piaskowska, moglie del regista e al terzo lavoro col marito dopo Quattro notti con Anna (2008) e lo stesso Essential Killing, non ha una vera e proprio trama, ma piuttosto una traccia, un canovaccio, che segue l’itinerario dell’animale e osserva gli eventi e le persone con cui entra in relazione, tra indifferenza, possesso, sfruttamento, amore.

A contare in EO sono soprattutto le immagini, realizzate da Skolimowski con il direttore della fotografia Michal Dymek: un insieme libero e sperimentale di invenzioni e colori accesi; effetti sbalorditivi, a volte anche pacchiani, ma anche estremi e coraggiosi, che mettono alla prova l’estetica digitale, tra luci al neon e movimenti a 360° della macchina da presa. Un tour de force visivo volutamente brutale e grezzo, che nel momento in cui prende Bresson a modello cerca anche di aggiornarne il rigore al mondo delle immagini contemporanee, che come tutti sappiamo sono troppe e ovunque, persistenti e volgari.

Trait d’union delle varie vicende è ovviamente il piccolo asinello, il quale guarda, o meglio osserva, e vive e patisce, diventando con la sua impassibile dolcezza e il suo istinto di sopravvivenza il simbolo e al tempo stesso la vittima inconsapevole di un’esistenza senza direzione, senza morale o senso d’appartenenza. Come ha detto lo stesso Skolimowski, «gli asini non sanno cosa sia la recitazione, non possono fingere nulla: semplicemente sono. Sono gentili, premurosi, rispettosi, educati e leali. Vivono al massimo nel momento presente». Idealmente, con tutti i rischi e limiti di un simile approccio, EO è come il suo protagonista: diretto, senza mediazione, senza eccessive costruzioni, se non quelle delle sue immagini, che sono spinte al limite della resa estetica.

All’aspetto sperimentale del film – che a Cannes, dove è stato presentato in anteprima, ha vinto il Premio della Giuria dopo aver diviso pubblico e critica tra accesi detrattori e strenui difensori – contribuiscono anche le musiche stridenti di Pawel Mykietyn, ricercate e basate su suoni naturali, e la presenza straniante di attore e attrici (tra cui Isabelle Huppert in una parte breve e folgorante), come se, osservando il mondo dalla prospettiva a quattro zampe del povero EO, l’umanità stessa fosse qualcosa di troppo, di violento, di sbagliato.


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