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Il gioco del destino e della fantasia, molto più che una semplice trasposizione

Adattando i suoi racconti, Ryusuke Hamaguchi si rivela un cineasta a tutto tondo, non solo uno scrittore brillante. Al cinema.
di Roy Menarini

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sabato 28 agosto 2021 - Focus

Il rapporto tra cinema e letteratura passa anche attraverso atti cinematografici che non sono semplici trasposizioni di libri editi. In questo caso, Il gioco del destino e della fantasia, distribuito dalla Tucker Film dopo la vittoria a Berlino (Orso d'argento), si basa su tre racconti dello stesso regista, Ryusuke Hamaguchi, del tutto sconosciuto fino a oggi in Italia. Ma, indipendentemente dalla fonte, il rapporto tra i personaggi dei differenti episodi, è completamente fatico, si svolge cioè attraverso il dialogo e la parola. E indaga la natura formale e sociale dei rapporto umani.
Certo, a volte il termine "letterario" per un film assume connotati negativi (come sinonimo di legnoso, inautentico, poco cinematografico), che in questo caso non trovano ragion d'essere.

Il gioco del destino e della fantasia è infatti un film al tempo stesso minuzioso e spontaneo, scritto nei minimi dettagli e sinceramente occasionale, astratto e concreto.
Roy Menarini

Le rime interne dei tre episodi permettono di trovare ben più che semplici corrispondenze (i confronti a due, la definizione dei sentimenti, le sorprese dovute ai segreti che ciascuno custodisce, e così via). Pensiamo per esempio al primo, lungo confronto in taxi tra le amiche protagoniste del primo episodio, dove l'uomo di cui una delle due si sta innamorando viene evocato in termini così tangibili che l'altra definisce "erotico" il solo racconto di un'innocente chiacchierata.
E nel secondo episodio, a diventare erotico è un brano di letteratura che una studentessa (matura) legge al professore (che ne è autore) ad alta voce, senza che i corpi si sfiorino nemmeno una volta. E in fondo, anche nella schermaglia tra le due vecchie amiche (o forse non così amiche) del terzo episodio, il bisogno di calore umano e il contatto fisico sono aspetti fondamentali per la costruzione di un rapporto tanto ambiguo quanto paradossalmente caloroso.
Delle influenze di Ryusuke Hamaguchi la critica ha parlato molto, citando Eric Rohmer, Woody Allen, Hirokazu Kore'eda, o persino Ozu. Ci pare che il miglior riferimento sia il primo, Rohmer. Tornando alla questione letteraria, infatti, Rohmer era solito organizzare i suoi film in cicli stagionali, pubblicando poi spesso anche la loro versione letteraria. Nel suo caso la fusione poetica di cinema e scrittura era portata alle estreme conseguenze, anch'egli attraverso lo strumento del dialogo e del confronto verbale, quindi della parola come trait-d'union tra pagina e schermo. Senza però mai perdere l'attenzione all'aspetto visivo, che in Rohmer ha spesso assunto i tratti di un naturalismo e di un'autenticità flagranti.
Hamaguchi, a modo suo, reinventa il "rohmerismo", ma dialoga con il cinema giapponese minimalista e con la letteratura nipponica. Per quanto a rischio di logorrea, i suoi personaggi sono stratificati, e se si pensa di averne afferrato la personalità si scopre presto che i singoli caratteri sono ben più sfumati, sfuggenti (ma anche veritieri, illuminanti). E sbaglierebbe chi pensasse a una messa in scena semplice, fatta di campi e controcampi, quindi tutto sommato al servizio della sceneggiatura.


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