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Leos Carax, la rockstar che è sempre mancata alla Francia

Ultimo artista romantico (francese), il regista torna in sala con Annette, un film esagerato, pieno di simboli, allusioni e omaggi, che brucia i confini tra fiction e realtà e punta il dito sulla tensione irriconciliabile tra l’opera e l’artista. Miglior Regia al Festival di Cannes e da giovedì 18 novembre al cinema.
di Marzia Gandolfi

Annette

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Leos Carax (Alexandre Oscar Dupont) (63 anni) 22 novembre 1960, Suresnes (Francia) - Scorpione. Regista del film Annette.
venerdì 12 novembre 2021 - Celebrities

Di tutti i film in competizione a Cannes, Annette era senza dubbio il più atteso. Tra timore e desiderio spasmodico, è la sorte riservata alle leggende. E Leos Carax è quella leggenda. È la rockstar che è sempre mancata alla Francia senza aver mai cantato o essersi mai esibito, contando piuttosto le sue parole e le sue apparizioni dietro gli occhiali neri, sparendo (tredici anni tra Pola X e Holy Motors) e risorgendo dalle ceneri di un’autocombustione crepitante.

A sessantuno anni, Carax è l’ultimo artista romantico (francese). Ha bruciato la sua vita come i suoi film, portando con sé la fiamma del lirismo purificatore e il giogo di grandi sofferenze. Ognuno dei suoi film sembra essere il primo e l’ultimo, ciascuna delle sue opere lascia dietro di sé un baleno, quello del cinema. La sua carriera si gioca su un lungo periodo e su una filmografia singolarmente ridotta (sei film). Trentasei anni per passare dallo statuto di genio a quello di fantasma (e ritorno), in mezzo il fallimento finanziario e la dannazione professionale.

Da dove cominciare allora per raccontare Leos Carax, per dire a parole il suo cinema, organismo vivente di immagini, musica e poesia? Dal piacere dello spettatore innanzitutto, basta ripensare al volto sublimato di Juliette Binoche o alla corsa folle di Denis Lavant sulle note di David Bowie, alla luce dei fantasmi della Samaritaine, carcassa vuota come un relitto arenato a bordo Senna, o alla geografia amorosa dei suoi amanti (del Pont-Neuf), alla dissertazione di una limousine sulla propria fine o alla Senna metafora della traversata, della rivelazione, della trascendenza, fino alla pelle del regista che si fa schermo e si consuma sotto il fuoco dei nostri occhi.

O magari potremmo iniziare dall’amara cronaca dei rischi del cinema, dagli incidenti a cascata sul set degli Amanti del Pont-Neuf (1991) e dalla rocambolesca saga produttiva che ne segue, rivelando la determinazione di un giovane autore e il doppio movimento di conquista e di distruzione che caratterizza la sua carriera. Tutto comincia il 4 luglio del 1988. Quel giorno, il regista più promettente della sua generazione - ha già girato Boy Meets Girl e Rosso sangue, due film follemente romantici - è pronto per il terzo ma Denis Lavant si ferisce gravemente e comincia il calvario. Gli Amanti del Pont-Neuf, vittima di disgrazie e decisioni imprevedibili, termina nel dolore e ottiene un modesto successo, insufficiente a coprire i costi di produzione e i danni dell’ambizione. Per la ‘gente che conta’ nell’industria il cine-poeta, che riconcilia i fantasmi della cinefilia con l’urgenza del tempo presente, diventa persona non grata, uno sperperatore irresponsabile. L’uomo che lo aiuterà a risalire la china è Bruno Pesery, produttore cinematografico che finanzia Pola X. Il film, magnifico ma incompreso, pianta un altro chiodo sulla sua reputazione. Segue la caduta, più industriale che artistica. Poi il nero per tredici anni, afflitti da progetti che non si realizzeranno mai. Nell’attesa Carax vede molti film, gira qualche clip, sogna ‘motori sacri’ e scrive le parole del primo album di Carla Bruni.

Poi il cinema ritorna, popolato di sparizioni: il suo produttore storico Alain Dahan, il suo direttore della fotografia Jean-Yves Escoffier, gli attori Guillaume Depardieu e Katerina Golubeva (la sua compagna). Ce n’è abbastanza per urlare e per tornare dal mondo dei dannati. Spettro della propria leggenda, ‘emerge’ dalle fogne per portare scompiglio in città con un’ironica e commovente ‘auto-rappresentazione’ incarnata da Denis Lavant, il corpo dell’attore è luogo ricorrente del suo cinema. Holy Motors diventa la messa a punto di troppi anni di reclusione e di silenzio, diventa la storia di una redenzione, lo strumento di una riabilitazione industriale e morale per il ‘figliol prodigo’ del cinema francese. Holy Motors prova che Leos Carax sa gestire un budget ma soprattutto che non lo abbiamo amato invano. Invano si cerca invece una formula critica per dire con lo stesso linguaggio il dritto e il rovescio di questo film, la sua superficie e la sua intimità, il suo oggetto e il suo soggetto. Perché Holy Motors è una straordinaria affermazione di arte cinematografica, è il più emozionante, tenero, feroce, provocatorio e completo ritratto umano che un film possa offrire. Quell’umano si chiama Monsieur Oscar, è un attore ma di un tipo nuovo che prefigura un mondo prossimo: recita in assenza di ‘camere’. Un solo corpo, quello di Denis Lavant, per undici personaggi e una doppia esplorazione: la ricerca di sé e di tutto il cinema perduto.

Se Holy Motors rompe il sonno livido della sua arte, coltivata nell’intimità del suo limbo, nove anni dopo Annette brucia i confini tra fiction e realtà e punta il dito sulla tensione irriconciliabile tra l’opera e l’artista. È un film esagerato Annette, pieno di simboli, allusioni e omaggi. Sembra il racconto di una storia d’amore, di una grande, smisurata storia d’amore ma diventa qualcos’altro. Qualcosa di completamento diverso. È un’opera pop, un dramma musicale, un film opera, un trip barocco di furore e passione…dove l’amore brucia nel girone infernale dello show business e l’essenziale dell’azione è cantata. Annette forma quasi un dittico con Holy Motors, moltiplicando i riferimenti e affermando una parentela: la natura meta-cinematografica del prologo, la struttura in atti, la figura del gorilla, la limousine come bolla virtuale, teatro ambulante, quadro temporale e spaziale del film, di tutti i film di Carax, che rinnova la sua leggenda e torna in maestà, con un’intelligenza dello sguardo che ci fa urlare: ça, c’est du cinéma.


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