Anime Borboniche

Un film di Paolo Consorti, Guido Morra. Con Giobbe Covatta, Susy Del Giudice, Ernesto Mahieux Commedia, durata 90 min. - Italia 2021. - 102 Distribution
   
   
   

Anime borboniche Valutazione 4 stelle su cinque

di Fif


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sabato 16 gennaio 2021

L’amore non si merita lo dice una Lucia (Susy Del Giudice) ancora innamorata ad un Vincenzo incredulo. Lui, magnificamente portato in scena da Ernesto Mahieux, più grande d’età e non di statura, che appare, invece, incredibilmente minuscola, inversamente proporzionale a quella morale. 

È un uomo semplice, glielo ripete Giacinto, frate di dubbia realtà, Padre Pio contemporaneo che riporta l’infinità del paradiso all’attimo attuale, dove quell’amore ricercato vive. 

Un percorso, fisico e metaforico, quello di Vincenzo, magicamente riportato sullo schermo pur senza inquinare il sapore teatrale. 

Non ha alcuna qualità, uomo qualunque, figlio delle proprie poche certezze e tante fisime, dei suoi saluti - più scaramantici che rispettosi - alla statuina del Padre di Pietralcina che troneggia in un ingresso spoglio e a cui lui, riguardoso, affida le giornate; e alla statua poco distante da casa, che rappresenta un angioletto che suona, a quest’ultimo tutte le modeste richieste, finanche dove sia parcheggiata la macchina. 

È tutto lì il film, la trama potrebbe dirsi compiuta: Padre Pio, l’angioletto, Lucia, Vincenzo, l’amore, la ragione, la semplicità... eppure si apre un’interpretazione originale e inaspettata. 

Si racconta il quotidiano attribuendogli un tempo non conosciuto. Gli abiti settecenteschi aiutano a distinguere ciò che scorre nella realtà da ciò che resta parallelo in uno spazio a sé stante. Il tempo è il protagonista nascosto, è la risposta, è il paradiso, come indirettamente insegna il padre di Vincenzo, per bocca dello stesso figlio mentre ottiene un passaggio da un fantasioso carro da morto, come se in quel mezzo che solitamente porta all’ultimo viaggio Vincenzo, scortato da putti inconsueti, becchini nella realtà, ma eterei protettori delle arti nella fiaba, riuscisse inconsapevolmente a rubare le consapevolezze a cui si avrebbe accesso solo nel trapasso. 

La recita borbonica diventa una scusa per vestire una coppia di un ulteriore valore da interpretare e rispettare: la storia. Vincenzo da barbiere diventa cocchiere, senza parrucca e senza cavallo. Abbandonato dalla sua Lucia, imperdonabilmente impulsiva. Inizia così il cammino che lega le tappe di un viaggio spirituale. È un sogno, un’allucinazione che passa per più stazioni, via Crucis per consapevolizzare le fortune dell’uomo, soprattutto il più semplice.

Il giro si avvia per mano di una coppia realmente insoddisfatta, un uomo pieno d’ego e con poco riguardo per il gentil sesso che confonde l’amore con il possesso; continua, poi, per una campagna sconfinata dove ancora una coppia non si rispetta. 

Inizio e fine del film coincidono nel principale pilastro: la visione dell’amore; il primo che si incontra è malsano, l’ultimo, quello di Vincenzo e Lucia ritrovati, nuovamente sano. 

Continua l’itinerario verso un altro pilastro del film, quello dello spirito, la religione. Qui l’attaccamento a Padre Pio di Vincenzo assume una sua fisicità con un inusuale Giobbe Covatta che lascia intendere delle stimmate nel mentre traduce un futuro in cui già sa che pioverà, metafora nella metafora, eppure basta un ombrello.

Per raggiungere la certezza finale si passa poi per l’amore tradito, rappresentato splendidamente da una Rosaria De Cicco che interpreta la ragione quando fugge, quando cerca un ruscello che non c’è: via di fuga necessaria alla mente per poter lasciare scorrere ciò che è stato.

Intanto, per tutto il cammino, un angelo e un cane indicano la via al nostro improbabile San Raffaele popolare, viandante inventato, quasi quel bambino fosse il Tobiolo dell’iconografica narrazione, dal simile nome, che stavolta, al contrario, diventa guida. 

Non è del resto, lo stesso Santo, viandante e protettore dell’amore? Devono averlo certo saputo Paolo Consorti e Guido Morra per scrivere con tanta delicatezza una storia bella e irreale che ha l’orgoglioso vezzo del contesto regale, non portato avanti, per una volta, unicamente per spocchia autoreferenziale.

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