angelo umana
|
mercoledì 2 giugno 2021
|
le vie perdute della mente
|
|
|
|
Lo spettatore che si avvicina all'età di cui si tratta in questo ottimo film prova inquietudine e disagio nel vedere le fasi che si succedono per giungere ad un'epoca in cui la vita e le funzioni della testa non appartengono più al suo proprietario, non rispondono più ai comandi. Questo è merito del protagonista Anthony Hopkins, il livello della cui recitazione si mantiene altissimo, e della sua facente funzioni di figlia nel film, Olivia Colman, per la veridicità dello svolgersi dei fatti e la loro superba interpretazione.
La progressione verso lo stato che il nostro interprete rappresenta, l'ex ingegnere Anthony che perde la nozione del tempo, delle cose e delle persone che lo circondano, coi ricordi e le percezioni sfumate e non più collegabili tra loro, è ben descritta dalle annotazioni lette, del regista e drammaturgo francese Florian Zeller (il film è la trasformazione di una sua opera teatrale) e da esperti critici, come meglio non si potrebbe dire: “.
[+]
Lo spettatore che si avvicina all'età di cui si tratta in questo ottimo film prova inquietudine e disagio nel vedere le fasi che si succedono per giungere ad un'epoca in cui la vita e le funzioni della testa non appartengono più al suo proprietario, non rispondono più ai comandi. Questo è merito del protagonista Anthony Hopkins, il livello della cui recitazione si mantiene altissimo, e della sua facente funzioni di figlia nel film, Olivia Colman, per la veridicità dello svolgersi dei fatti e la loro superba interpretazione.
La progressione verso lo stato che il nostro interprete rappresenta, l'ex ingegnere Anthony che perde la nozione del tempo, delle cose e delle persone che lo circondano, coi ricordi e le percezioni sfumate e non più collegabili tra loro, è ben descritta dalle annotazioni lette, del regista e drammaturgo francese Florian Zeller (il film è la trasformazione di una sua opera teatrale) e da esperti critici, come meglio non si potrebbe dire: “...ci conduce all'interno di un labirinto … cosa significhi perdere l'orientamento … la disintegrazione della mente...“.
Tutto scivola verso il nulla, niente più da ritenere, sconfitti, verso lo stato mentale che Anthony stesso definisce come un albero che stà perdendo le foglie, la ricerca di un posto dove posare il capo, dove riconoscersi e ritrovar sé stessi, non essendo più padroni dei propri gesti e non trovare la via per recuperare le proprie cose.
La persona che regredisce a uno stato infantile, manovrabile e da proteggere … un'associazione di idee porta all'apprezzato Una sconfinata giovinezza con Fabrizio Bentivoglio, Francesca Neri e tanti altri, film del 2010 di Pupi Avati. Non restano che le rassicurazioni di chi ci accompagna, come l'infermiera della casa di riposo nel finale, andrà tutto bene! dice questa ad Hopkins, vincitore del suo secondo meritato Oscar. Un'ultima annotazione, una facezia: potrebbe dirsi che in Inghilterra non c'è proprio fantasia in cucina, il pollo sembra un pasto d'abitudine nel film.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a angelo umana »
[ - ] lascia un commento a angelo umana »
|
|
d'accordo? |
|
maugam
|
domenica 30 maggio 2021
|
tema interessante ma...
|
|
|
|
Condivido quasi copletamente il commento di carloalberto.
Sceneggiatura barocca, tecnica di ripresa banale, montaggio artificioso, straordinaria interpretazione di Hopkins.
Il tema, invece lo reputo interessante anche se la societa', pero', e' fatta, nella stragrande maggioranza dei casi, da persone decisamente meno agiate, rispetto ai protagonisti del film e la gestione di una persona anziana con le problematiche espresse dal film, non e' certo economicamente "facile" come, invece, il regista ci vuole far credere.
Le scene finali sono, infine, scandalose; si, certo, ad un certo punto, forse, non e' piu' possibile gestire in casa un anziano malato ma, per andare in una clinica, ci vogliono i soldi, tanti soldi e il personale di queste cliniche, anche se da decine di migliaia di euro al mese, non sono certo come la suadente infermiera della favola del film.
[+]
Condivido quasi copletamente il commento di carloalberto.
Sceneggiatura barocca, tecnica di ripresa banale, montaggio artificioso, straordinaria interpretazione di Hopkins.
Il tema, invece lo reputo interessante anche se la societa', pero', e' fatta, nella stragrande maggioranza dei casi, da persone decisamente meno agiate, rispetto ai protagonisti del film e la gestione di una persona anziana con le problematiche espresse dal film, non e' certo economicamente "facile" come, invece, il regista ci vuole far credere.
Le scene finali sono, infine, scandalose; si, certo, ad un certo punto, forse, non e' piu' possibile gestire in casa un anziano malato ma, per andare in una clinica, ci vogliono i soldi, tanti soldi e il personale di queste cliniche, anche se da decine di migliaia di euro al mese, non sono certo come la suadente infermiera della favola del film.
Si puo' mettere un anziano in una struttura di riposo ma e', sicuramente, per lui, sempre, la peggior strada possibile.
Ecco perche' non vedro' piu' film di Florian Zeller, un servo della nostra societa'.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a maugam »
[ - ] lascia un commento a maugam »
|
|
d'accordo? |
|
playthebluesm
|
venerdì 28 maggio 2021
|
un lento, amorevole, intenso, stillicidio
|
|
|
|
THE FATHER
(recensione)
Cosa ci prepara alla morte nell’abbandono della vita?
Quanto il corpo si lasci trafiggere dalle lame della lotta per la difesa del succo della vita non ci è dato saperlo.
Ma invero, il corpo, la mente, la coscienza, cedono degli spazi graduali nella lotta gradualmente impari.
Come in una vittoria di Pirro le ferite sul campo non si contano, ed il travaglio è duro assai.
Nella visione di THE FATHER assistiamo ad un perfetto “dramma da camera”, ove lo stillicidio è lento, si, ma non meno crudele, ed il regista (un magnifico Florian Zeller) ripescando una nota pièce teatrale difficilmente riproponibile nel cinema (o almeno così credevamo), gioca una carta assai rischiosa, ma resa succosa dalla magnifica recitazione del protagonista, un Anthony Hopkins alle soglie di una immortalità anticipata, ma marmorizzata in questo ruolo, delicatissimo poiché fragilissimo, in cui il rischio di retorica del gesto era immane, insieme al facile giuogo della lacrima che l’argomento poteva in sé arrecare.
[+]
THE FATHER
(recensione)
Cosa ci prepara alla morte nell’abbandono della vita?
Quanto il corpo si lasci trafiggere dalle lame della lotta per la difesa del succo della vita non ci è dato saperlo.
Ma invero, il corpo, la mente, la coscienza, cedono degli spazi graduali nella lotta gradualmente impari.
Come in una vittoria di Pirro le ferite sul campo non si contano, ed il travaglio è duro assai.
Nella visione di THE FATHER assistiamo ad un perfetto “dramma da camera”, ove lo stillicidio è lento, si, ma non meno crudele, ed il regista (un magnifico Florian Zeller) ripescando una nota pièce teatrale difficilmente riproponibile nel cinema (o almeno così credevamo), gioca una carta assai rischiosa, ma resa succosa dalla magnifica recitazione del protagonista, un Anthony Hopkins alle soglie di una immortalità anticipata, ma marmorizzata in questo ruolo, delicatissimo poiché fragilissimo, in cui il rischio di retorica del gesto era immane, insieme al facile giuogo della lacrima che l’argomento poteva in sé arrecare.
In realtà il suo personaggio è ispido, infastidente in moltissimi passaggi, poi di colpo tenero, poi ancora cinico, ma con una naturalezza che sbaraglia, nell’inseguimento delle sue pupille perse nel vuoto, in un’auto che lo conduce nell’ennesimo luogo che dimenticherà, intorno ad affetti dai volti che si confondono, in un roteare della vita che gli appare come un tourbillon confuso, insieme all’orologio che continuamente perde (o semplicemente dimentica), ma che per lui è ultimo aggancio alla realtà, al tempo che scorre, segnato da lancette rassicuranti. Mentre figlie si confondono ad infermiere, badanti ad estranee, le case perdono i quadri, la memoria scivola via, lo stillicidio strizza le budella allo spettatore, a qualunque essere sensibile abbia osservato le pupille di un anziano, amico o parente, ed abbia desiderato comprenderne il travaglio intimo, nel Bardo che è il passaggio alla vecchiaia. In una società che si fa dimentica dell’importanza che assurge il ruolo d’un “Vecchio”, questa pellicola è un Atto Capitale, un Teatro del Dolore meritevole del miglior Artaud.
Un solco delicato ed insieme fulgido, una impeccabile prova da viversi addosso, per comprendere quanto realmente osserviamo della fragilità della vita, della sua caducità, o quanto invece si badi alla scontatezza del sentirsi in salute, fintanto che in salute si sta. Per poi scoprirsi ineluttabilmente fragili, ma quando è troppo tardi, per dirsi esattamente “coscienti”.
Che la vita intanto scivola via, e non se ne è afferrata la reale Bellezza…
(Massimiliano Manieri)
[-]
|
|
[+] lascia un commento a playthebluesm »
[ - ] lascia un commento a playthebluesm »
|
|
d'accordo? |
|
carloalberto
|
giovedì 6 maggio 2021
|
film mediocre, hopkins immenso
|
|
|
|
Parlare di una sceneggiatura barocca, di un soggetto scontato, di una tecnica di ripresa banale o di un montaggio artificioso, quando sul palco, in una piece teatrale costruita interamente sul personaggio del protagonista, c’è Anthony Hopkins, appare superfluo.
L’esordiente alla regia Florian Zeller ce la mette tutta per essere all’altezza del mostro sacro che si ritrova in scena, ma gli sforzi per rendere lo spettatore partecipe del dramma del protagonista, mostrandogli il mondo dalla prospettiva di un malato di Alzheimer, sperando sia stata questa l’intenzione del regista, risultano talmente eccessivi da provocare in chi guarda soltanto confusione ed un senso di fastidio per la ripetizione ossessiva di alcune sequenze in un montaggio sconclusionato e sovrabbondante che distraggono dalla meravigliosa, straordinaria interpretazione di Hopkins, senza peraltro riuscirci per la bravura immensa ed incontenibile dell’attore.
[+]
Parlare di una sceneggiatura barocca, di un soggetto scontato, di una tecnica di ripresa banale o di un montaggio artificioso, quando sul palco, in una piece teatrale costruita interamente sul personaggio del protagonista, c’è Anthony Hopkins, appare superfluo.
L’esordiente alla regia Florian Zeller ce la mette tutta per essere all’altezza del mostro sacro che si ritrova in scena, ma gli sforzi per rendere lo spettatore partecipe del dramma del protagonista, mostrandogli il mondo dalla prospettiva di un malato di Alzheimer, sperando sia stata questa l’intenzione del regista, risultano talmente eccessivi da provocare in chi guarda soltanto confusione ed un senso di fastidio per la ripetizione ossessiva di alcune sequenze in un montaggio sconclusionato e sovrabbondante che distraggono dalla meravigliosa, straordinaria interpretazione di Hopkins, senza peraltro riuscirci per la bravura immensa ed incontenibile dell’attore.
Inutile ed ultroneo risulta l’episodio dell’incidente stradale nel vissuto del protagonista, che aggiunge una ulteriore carica drammatica al testo che di per sé è già saturo di pathos trattando degli effetti devastanti di quella malattia sulla persona, resi in modo sublime da Hopkins.
Nonostante tutto, la pellicola è già consegnata alla storia della cinematografia come prezioso documento della maestria attoriale e dell’arte della recitazione di un gigante del palcoscenico mondiale e di tutti i tempi inarrivabile dai contemporanei.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a carloalberto »
[ - ] lascia un commento a carloalberto »
|
|
d'accordo? |
|
alessandro spata
|
venerdì 30 aprile 2021
|
the father. progressiva scarnificazione dell''io
|
|
|
|
Un grande film è (anche o soprattutto, forse) quello in cui le vicende non si dipanano indipendentemente dall’osservazione dello spettatore. Quest’ultimo non solo non si sente mai escluso dalla storia,ma attraverso gli attori e le situazioni narrate entra in scena lui stesso con tutto il retroterra del suo mondo interno. Stai lì a guardare ed è come se recitassi la tua parte. Partecipi alle scene proiettate e le completi in qualche modo. Ti immedesimi nella storia e nelle gioie e nei dolori dei suoi protagonisti e senza che l’autore indulga alla facile emozionalità o al sentimentalismo becero, ma al contrario stimolandoci ad una riflessione lucida sulla condizione umana.
[+]
Un grande film è (anche o soprattutto, forse) quello in cui le vicende non si dipanano indipendentemente dall’osservazione dello spettatore. Quest’ultimo non solo non si sente mai escluso dalla storia,ma attraverso gli attori e le situazioni narrate entra in scena lui stesso con tutto il retroterra del suo mondo interno. Stai lì a guardare ed è come se recitassi la tua parte. Partecipi alle scene proiettate e le completi in qualche modo. Ti immedesimi nella storia e nelle gioie e nei dolori dei suoi protagonisti e senza che l’autore indulga alla facile emozionalità o al sentimentalismo becero, ma al contrario stimolandoci ad una riflessione lucida sulla condizione umana. L’esperienza di certe “proiezioni” può essere davvero sconvolgente a tal punto che di certi film sarebbe sconsigliabile la fruizione individuale per scongiurare il rischio di sentirsi troppo soli alla fine.
Questo solo per introdurre un grande film come The father. Non citerò gli splendidi attori o la regia precisa e altamente metaforica, per così dire. Dico soltanto che secondo me questo è un film soprattutto sul “tempo”. La condizione della demenza senile è un pretesto per accennare ad un discorso più ampio sulla percezione individuale angosciosa tante volte del tempo e del suo fluire. E Hopkins si presta magnificamente allo scopo.
Forse è di una “perversione” che stiamo parlando? La demenza alla stregua di un’«aporia temporale della non-morte» cioè di una realtà che è luogo della tortura dell’impossibilità di ogni “movimento” pur continuando a vivere. Essa evidenzia il marasma in cui versa il protagonista il suo non saper dovere andare, cosa dover fare, il non sapere chi è. Ed ecco che Antony si ritrova nelle vesti di un “oggetto” inerme, indifeso che non ha più la concezione dello spazio, che non sa più dove si trova. Concetti come avanti e indietro, sotto o sopra, prima e dopo non hanno più alcun senso. E dove potrebbe andare allora? Nella perdita del controllo dei suoi gesti (nulla può agire per ritrovarsi e ritrovare la stabilità dello spazio e del tempo) il protagonista Antony si aliena totalmente. Altro che miraggio di completezza o illusione di unità. Qui si dà il caso che si riconosce e si identifica soltanto nell’immagine spezzata di un “corpo frammentato” che testimonia soltanto del fatto che è in balia degli altri e degli eventi oltre che della sua “inibizione motoria”. Attenzione lo spettatore si immedesima in questa “perdita di movimento” (del protagonista) facilitato in questo, chissà, forse anche dalla situazione filmica verosimilmente. Lo spettatore, pur “recitando” a suo modo le scene, rimane pur sempre “spettatore” ruolo che porta in sé certi elementi di “inibizione motoria”: il respiro si fa più lento e durante la durata della proiezione si impone di rimandare qualunque “agito” che possa disturbare la visione propria e altrui. In questa «immobilità propriamente motoria», cui sono obbligato dalle circostanze mi ritrovo come in una bolla in cui il tempo si è fermato e la forza di gravità non infierisce più su di te più di tanto. Ma col vantaggio di poter tornare alla fine del film ai tuoi ritmi soliti.
Siamo letteralmente risucchiati nella storia di questo cedimento strutturale di un uomo che vive l'orrenda sensazione della discontinuità nell’esperienza temporale.Vediamo la sua vitasotto il profilo del suo autentico accadere. C’è soltanto il puro “fatto” che qualcosa accade indipendentemente da ogni sua interpretazione, o possibile intervento.
Sicuramente la vita di Antony non è più scandita dai tanti piccoli quotidiani “Prima” e “Dopo” come capita a tutti normalmente. Ma a qualcuno di noi tocca persino di vivere degli eventi “Dopo” i quali non solo percepiamo la frattura traumatica della continuità del nostro percorso esistenziale, ma finiamo per provare anche l’orrenda sensazione che il mondo non sia più così giusto, che persino il tempo non sia poi così galantuomo e che tutto non abbia più significato. Forse la morte della figlia Lucy che ritorna meccanicamente alla mente di Antony può essere lo spartiacque?Ci sono eventi che ci fanno vivere un eterno strisciante “Dopo”, in cui sentiamo perennemente di non avere il controllo della nostra vita e di ciò che ci capita intorno. La figlia (defunta) di cui non capisce il perché non si tenga in contatto con lui, precipita Antony in una condizione ontologica di “trauma” a causa del quale possiede soltanto la consapevolezza liminale di essere disarmato in balia degli eventi e che il mondo non sarà mai più affidabile. Questa sola intuizione assurge completamente alla sua coscienza. Tutto alla fine diventa discutibile, irrisolto. Ed è difficile dare un senso a quello che verrà. Immerso com’è in questa sorta di “The day after” permanente.
Il ricordo della figlia e il suo “desiderio” impossibile di “rivederla” mira nella mente di Antony a ristabilire un ordine cioè a fare giustizia. Antony - si affaccia alla memoria - come se si affacciasse a guardare fuori dalla finestra della sua camera per convincersi che esiste ancora qualche certezza: che i rami degli alberi oscillano al vento, le persone passano, i bambini giocano. C’è ancora un ordine in questo universo dopo tutto e nonostante il suo “Day after” permanente. La “compulsione” di Antony a - riesumare periodicamente la figlia Lucy dalla memoria - è un atto di riverbero, un’azione di rifrazione, un contraccolpo, insomma un ritorno al futuro: guardare ad un passato mitico (mitico perché la figlia è in realtà morta) nell’illusione di poter procedere ancora con fiducia verso il futuro; come essere con le braccia proiettate in avanti, ma guardando costantemente all’indietro (pauroso torcicollo ontologico).
Quella di Antony è il ricordo di una vita già morta. Simbolo di un’esistenza che si vorrebbe mai modificata dagli eventi, ma che diviene fatalmente una presenza opprimente, senza tempo, o più propriamente, la paralisi di una trama sempre irrealizzata (di un’opportunità sempre inattuata), ma sempre già drammaticamente e quotidianamente “sperimentata”.
La sua “sembra” l’attitudine mentale di uno per il quale il futuro non c’è o comunque non viene percepito mai come qualcosa di imminente.Allora sarà un caso se il tempodi Antony sembracaratterizzato da un’eccessiva incomprensibile per certi versi lentezza inframezzata da numerosi singulti?
Antony non capisce e si arrabbia persino. Tutte queste attenzioni. Tutte queste precauzioni. Bando ad ogni sentimentalismo! Non è pietà, né carità che cerca, ma pretende il nostro “riconoscimento”. Almeno questo rientra ancora nell’orizzonte possibile della sua volontà? Allora, sforzatevi di “parlargli” ancora, provate a vederlo ancora come persona umana, cioè come potenza capace ancora di agire.
Egli non pronuncia mai la parola “morte”. Ha poi la consapevolezza di poter morire? D’altra parte se “il futuro non è mai qui” persino proiettare la propria “deadline” in termini determinati, a una data presumibile da destinareè impossibile. Eppure qualcosa sta morendo lentamente dentro di lui e con lui. Piccoli particolari anticipano la sua fine e tutto sembra una sorta di manfrina inscenata allo scopo di richiamar-ci ad un destino ineluttabile. La stessa demenza del personaggio su cui si fonda lo stesso impianto narrativo sembra fungere di per sé da strategia di procrastinazione. La sua fine non è mai certa ovviamente. I tempi vengono differiti, spostati di continuo in un futuro indeterminato o comunque tale ci appare.Sappiamo solo che avverrà. L’età del protagonista e il suo decadimento inesorabilmente ingravescente non possono che preludere all’esito. Tuttavia, antony nega la realtà e si “persuade” a rimandare ad un tempo indefinito la fine. Una fine che lo spettatore non vedrà perché deve rimanere indefinita anche nella sua mente. Non è semplice desiderio del lieto fine. È solo l’istinto di sopravvivenza che lavora sottobanco per tutti sani e malati. Anche quando la tua mente sembra volatilizzarsi progressivamente.
Anche la musica cosa è se non una manovra per provare a liberare ancora un passato e un futuro rimasti inchiodati in uno spazio e in un tempo non più umani privi di realtà tangibile? Antony si mette in ascolto del mondo. E da questo mondo gli giungono le dolci note di Purcell, Bizet, Bellini. Fino a quando il disco si inceppa finendo per rimandargli soltanto una “monodia” una nota unica granulosa, stridente; un unico ossessivo suono stonato, straziante nella sua orripilante disarmonia; un suono trattenuto, ma non allo scopo di estendere in avanti la percezione musicale, ma solo per poter iniziare ogni volta da capo dallo stesso punto-suono dove tutto accade – nel presente di una sonorità cacofonica sempre attuale, sempre uguale -. E il presente si allarga sì, ma ancora una volta e sempre all’indietro verso il “prima”; come avere il braccio di un vecchio grammofono impiantato nel cervello che graffia continuamente all’indietro con la sua punta di diamante sempre sullo stesso istante, sempre sullo stesso punto della corteccia fino a scavare un solco lancinante giù in profondità dove è immagazzinato quell’orribile esperienza del tempo che non scorre mai. Insomma, una vera orripilante sensazione fisica, una sorta di “realtà aumentata” del dolore umano. E non ti resta che scrollarti di dosso le cuffie per provare a rimettere a posto il corso della musica. Ma non sarà facile convincersi che comunque non può essere la stessa musica. Non lo è mai.
E quella carrellata lungo il corridoio che si sposta lentamente (con la steadycam presumibilmente) verso quella porta finale, lì in fondo. Claustrofobico corridoio come nell’Overlock Hotel. Forse sarebbe più igienico non sbirciare dietro quella porta. Fermarsi sulla soglia. Perché deve essere angosciante scoprire che dietro quella porta non c’è nulla; più niente da vedere, più niente da sapere, più niente da desiderare. Oppure preparatevi ad accogliere il dolore assoluto, incondizionato, indicibile che testimonia della trasformazione in atto di un uomo che non è più titolare della comprensione di se stesso e delle sue esperienze.
Chi sei tu? Chi sono io? Pronuncia Antony in questa sorta di esclamazione finale di un dialogo interiore. Notate il suo volto in quell’ultimo scorcio di film. Un volto atterrito e sbalordito insieme. La sua è la maschera dello sgomento di fronte al “nulla” che gli si prospetta ogni momento dinnanzi agli occhi.
Tenta di appellarsi ancora alla memoria. In questo tentativo sembra risuonare un ennesimo sussulto di vitalità. Ma i ricordi sono come “le foglie che sente di perdere” inesorabilmente. Le foglie cadendo si staccano dal loro albero. Così i ricordi lo isolano dal suo “albero della vita”. Egli è solo nel suo pensiero e non sa nemmeno dov’è in realtà e che ci fa qui. In questo dialogo dell’Io rivolto a sé nel silenzio di una dimensione individuale, vive il paradosso di una temporalità che sfugge sì, ma soltanto nel passato fino al punto che lo vediamo regredire all’infanzia con una voce sottile proprio come quella di un infante smarrito, proprio come il “curioso Benjamin Button” che corre l’esistenza in una prospettiva a ritroso in cui però è costretto a – lasciarsi agire più che agire in prima persona -. A questo punto implora la madre di portarlo via. Ma non è un vero ricordo il suo e infatti non riesce nemmeno a “vederne il volto” solo i suoi occhi grandi gli sovvengono; una parte che fatalmente non può restituirgli il tutto. Ancora un corpo spezzato frammentato o soltanto il vissuto nudo e crudo di una sensazione che tende a ripresentarsi per intero nella sua forma originale? Il ricordo di un passato percepito nel presente nello stesso identico modo in cui lo avevo vissuto da bambino. Una sorta di ricordo “essenziale”, primigenio, talmente vero e vivido da essere brutale, da far male persino: il crudele prolungamento della percezione nel presente di un passato che non ha goduto dell’intercessione, né della ricomposizione tipiche del tempo che scorre, che non ha risentito di quell’opera benemerita di ri-elaborazione propria della memoria. No! Non sono veri ricordi i suoi, ma solo impressioni, orribili – scheletri esadecimali di un atto di coscienza -.Quante volte abbiamo invocato nostra madre nei momenti di difficoltà? Mamma aiutami! E improvvisamente ci ritroviamo catapultati all’indietro come in una sorta di distorsione spazio temporale, di nuovo bambini. Ma se tutto va bene possiamo sempre tornare nel nostro presente nella prospettiva certa di un futuro prossimo. E invece a Antony capita di ritrovarsi sprofondato in un abisso temporale tra un passato che non passa e un futuro che non c’è. In questo territorio paradossalmente fuori dal tempo e dallo spazio la storia si arresta sine die. Ma in che razza di “zona” sarà finito? Un territorio desolato, dove le normali leggi della natura del tempo e dello spazio non valgono più. E dove nemmeno i “desideri più intimi e segreti” si avverano.
Siamo arrivati al dunque. A Antony sembra davvero di intrattenere una relazione immaginaria con qualcuno che non è reale. E si aggira come un “fantasma” nei meandri di se stesso. È lui stesso il suo “fantasma”? Uno che “non significa” più nulla, che non rimanda a nessun altro significante.
E si scopre impossibilitato a capire se sia effettivamente lui a guardare la tragedia che si porta addosso o “siano gli occhi di un altro a vedere al posto suo. È assurdo, ma non può che sentirsi escluso dall’essere e dal non-essere incapace com’è di rivendicarne la benché minima responsabilità.
Eppure è ancora capace di pronunciare la parola “io”. “Io” esiste ancora. ’Io” non si è ancora scolorito fino al punto di estinguersi. In questo stato di isolamento in cui versa le parole hanno ancora un senso. La parola qui non ha ancora subito uno scacco inesorabile. La parola si oppone strenuamente al silenzio. Le sue parole risuonano come un grido alla nostra coscienza. Non il grido energico dell’uomo rabbioso, ma quello più svigorito di un uomo adulto ormai stremato che chiede aiuto. La parola qui ha ancora la forza di assurgere a referente estremo del dolore irrimediabile. C’è ancora spazio per scandire la parola che si oppone a – quel nulla assordante” del dolore che annichilisce. Il suo grido risuona nelle orecchie e nel cuore dell’infermiera capace ancora di ascoltare. Il suo mesto richiamo è ancora capace di fare breccia nell’istinto, nella ragione e nel sentimento.
Ecco allora l’ uomo che sta consumando dentro di sé tutto ciò che appartiene alla “creatura”: – i ricordi frivoli, le parole dei libri, le impressioni, l’esperienza, gli affetti, le gioie e i dolori, tutto insomma! Eppure c’è ancora una tensione dentro il protagonista! Ma che si prefigura come una marea impetuosa ricca di ancora di immagini vivide e sconvolgenti seppure indefinite. Come si può svuotare completamente un organismo da ogni bisogno, da ogni tensione? Nemmeno l’Alzheimer osa arrivare a tanto.
Non ha più un posto dove riposarsi Antony. E non distingue più la notte dal giorno; esistono solo variazioni della luce. Però, sa che l’orologio è al suo polso. Gli servirà per il “viaggio”, ma non è sicuro di essere pronto (affiora la consapevolezza del “dover morire?”) Magnifica poi la scena finale dell’infermiera che sostiene Antony quasi michelangiolesca nella sua “pietà”.
Fuori c’è il sole…Come On Baby… Forza amico mio…Andrà tutto bene…Easy now…Ti sentirai bene tra un minuto, te lo prometto.
Ed ecco il nero dell'«immagine» finaleultimo residuo di un Io in progressiva dissolvenza. Metafora della “scarnificazione” progressiva dell’Io del protagonista che implode nel nulla. In questo consiste la morte? Ma quel nero ci piace trattarlo alla stregua di una – dissolvenza in chiusura – come in “Interiors” in cui lo stratagemma accresce la malinconia di un epilogo che comunque vogliamo che rimanga aperto.
Tocca a voi spettatori adesso.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a alessandro spata »
[ - ] lascia un commento a alessandro spata »
|
|
d'accordo? |
|
eugenio
|
giovedì 1 aprile 2021
|
dramma a porte chiuse
|
|
|
|
Il tempo passa per tutti senza scampo, spada di Damocle, micidiale e inesorabile. Nulla pare intaccare il suo corso, a niente valgono i rimedi casalinghi per ingannar il sacro portatore della clessidra, responsabile, talune volte, di un decadimento delle nostre facoltà mentali e cognitive.
Invecchiando si perdono le forze, il fisico si rilassa e in taluni casi, oltre al decadimento del corpo, si assiste alla perdita di memoria della mente sino all’irreparabile. Sembrano saperlo bene molti cineasti, come Michael Haneke, vincitore qualche anno fa della Palma d’Oro a Cannes con Amour, un dramma da camera dalla reminiscenze bergmaniane, dedicato all’esistenza ordinaria di una coppia di ottuagenari, Anne (Emmanuelle Riva) e Georges (J.
[+]
Il tempo passa per tutti senza scampo, spada di Damocle, micidiale e inesorabile. Nulla pare intaccare il suo corso, a niente valgono i rimedi casalinghi per ingannar il sacro portatore della clessidra, responsabile, talune volte, di un decadimento delle nostre facoltà mentali e cognitive.
Invecchiando si perdono le forze, il fisico si rilassa e in taluni casi, oltre al decadimento del corpo, si assiste alla perdita di memoria della mente sino all’irreparabile. Sembrano saperlo bene molti cineasti, come Michael Haneke, vincitore qualche anno fa della Palma d’Oro a Cannes con Amour, un dramma da camera dalla reminiscenze bergmaniane, dedicato all’esistenza ordinaria di una coppia di ottuagenari, Anne (Emmanuelle Riva) e Georges (J.L. Trintignant), esponenti di un universo che ha fatto della cultura il baricentro geostazionario, il pilastro della propria identificazione sociale e sconvolti dalla malattia di Anne che per un ictus rimane inabile di qualsivoglia azione e costretta ad una sedia a rotelle presto inibita dall’uso della parola.
Se possiamo dire, ad Anthony, il protagonista della pellicola d’esordio alla regia per il regista Florian Zeller, tratta dal suo stesso scritto teatrale, The father, va decisamente meglio. Anthony, infatti, nome omen per quello che fu il terribile e sadico Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti, Anthony Hopkins, si muove, ma purtroppo per lui, pian piano qualcosa nella sua mente sembra non funzionare più. Alcuni accadimenti gli appaiono “stonati”, come fosse vittima di un complotto familiare, di una figlia Anne (Olivia Colman) che pare nascondergli qualcosa, di una vita che si tramuta sempre più in una claustrofobica iterazione di eventi giorno dopo giorno.
Eppure, siamo lontani dalla matrice di un thriller psicologico perché Zeller, abilmente e con una steady-cam che pare seguire pedissequamente non tanto i movimenti quanto soprattutto i pensieri dell’uomo, mette in scena dentro quattro mura domestiche il dramma di un disfacimento mentale. La ripetitività degli accadimenti, la perdita del tempo, lo spaesamento, la memoria che piano piano se ne va, scorrono con leggerezza come fossero sintomi di un grido muto e inarticolato che non riesce a esprimersi con facilità.
Anthony vacilla, il mondo pare complottare contro di lui e noi spettatori, in un primo momento, senza nulla conoscere di quest’uomo, senza nulla sapere di demenza senile, pensiamo che sia tutta un’abile montatura come se fossimo parte di un teatrino in cui ciascun personaggio recita un ruolo differente a seconda del soggetto che interpreta. Pirandello e il suo relativismo gnoseologico perde ogni significato entro un mondo che lentamente e amaramente per Anthony muta piano piano sino a divenire irriconoscibile, come la casa, il luogo familiare per eccellenza, gli oggetti d’uso quotidiano che misteriosamente non trova più, le iterazioni volute in fase di sceneggiatura fatte di dialoghi e inquadrature rivolte al primo piano di un uomo giorno dopo giorno, sempre più irriconoscibile.
Film raro dotato di una leggerezza ossessiva, mortifera, emozionante, capace di entrare nei prodromi di una malattia, The father, il padre in senso lato, è uno spaccato di una esistenza malinconica che lentamente si affievolisce nei ricordi, drammaticamente avvinto a una malattia incurabile e capace di avvinghiare corpo e anima.
Il tutto senza retorica o melò di fondo, con la sola forza di un grande attore come Anthony Hopkins, ritratto, come in una commedia di Bennet, “nudo e crudo”, là nella sua caratterizzazione patologica come fu quella di Emmanuelle Riva in Amour. Due film diversi, là la ferocia della malattia vissuta in solitudine e nel dolore, qui in un soffocato tentativo di irreversibile recupero, due temi differenti accumunati entrambi dall’inferno a porte chiuse sartriano e dall’infinito amore di chi resta. Candidato agli Oscar 2021 ma già vincitore morale di chi questo dramma lo vive ogni giorno sulla pelle o lo condivide, il vero amore sacrificale.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a eugenio »
[ - ] lascia un commento a eugenio »
|
|
d'accordo? |
|
|