First Cow

   
   
   

Non si piange sul latte rubato

di Fabio Ferzetti L'Espresso

Quante frustate bisogna dare a un marinaio che tenta di ammutinarsi? Non troppe, o non potrà più lavorare. Ma neanche troppo poche, perché bisogna pur dare l' esempio al resto della ciurma. «Tanto che perfino un' esecuzione capitale ben assegnata a volte si rivela utile», conclude uno dei due gentiluomini impegnati nella disputa, convinto che «non v' è nulla che non si possa calcolare». Battuta che ha un senso nel selvaggio Oregon del 1820, sfondo storico dell' anomalo e appassionante "First Cow", ma acquista ben altre risonanze oggi che la scienza del calcolo, alla base del capitalismo allora nascente, ha raggiunto una perfezione e una pervasività in quel tempo inconcepibili. In questo dialogo marginale, nelle sue allusioni al presente, nel misto di rigore e pacato distacco con cui osserva tutti i suoi personaggi, sta la grandezza di Kelly Reichardt, una delle migliori registe indipendenti Usa. Che da quasi trent' anni ormai rivisita storia e mitologia americane estraendo da figure e situazioni apparentemente minori un' umanità, un rispetto, una capacità di resuscitare epoche e voci lontane, ma sempre presenti, che cercheremmo invano nella produzione corrente. Il paladino delle frustate educative (Toby Jones) non è infatti il protagonista del film. È solo il compiaciuto possidente terriero di origini inglesi a cui ogni notte il pacifico "Cookie" Figowitz e lo spiritato King Lu, un cuoco orfano fin dalla tenera età e un cinese in fuga da chissà cosa (John Magaro e Orion Lee), mungono di nascosto la vacca. Quella vacca mansueta arrivata fra i rudi trapper dell' Oregon a bordo di un battello, come una regina, che con quel latte, concesso si direbbe con reciproca tenerezza, consente a Figowitz e al suo compagno d' avventure di sfornare e vendere dolciumi apprezzatissimi. In uno slancio di protocapitalismo inconsapevole da cui altri avrebbero tratto un dramma, una commedia, un film d' azione o magari le tre cose insieme. Mentre Reichardt ne fa una antispettacolare celebrazione dell' amicizia (luce naturale, andatura ellittica, ritmo pacato, formato quadrato da cinema muto) densa di umanità. E così attenta ai rapporti, anche tra uomini e animali, da essere quasi un manifesto di quella nuova sensibilità con cui oggi si tenta di rileggere il passato. Con la cultura del nostro tempo, ma senza rinunciare al rigore.
da L'Espresso, 8 agosto 2021


di Fabio Ferzetti, 8 agosto 2021

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