I nove ragazzi che compongono la banda dei 'paranzini' esprimono tutto il vitalismo e la verità necessarie. A partire da Francesco Di Napoli, il protagonista, che si carica sulle spalle tutto il peso del racconto. Al cinema.
di Roy Menarini
Ormai dai tempi del neorealismo, il mito dell'attore non professionista valorizza il cinema italiano impegnato e d'autore. Anche di recente, titoli come Fuocoammare, A Ciambra o Fiore hanno esaltato questa figura. Lo stesso regista di Fiore, Claudio Giovannesi, amplia la retorica del non-attore fino alle estreme conseguenze con La paranza dei bambini (guarda la video recensione), che peraltro gode di una derivazione letteraria molto impegnativa, il romanzo scritto da Roberto Saviano. A quale ragione obbedisce la scelta del non-attore? Prima di tutto, la promessa di autenticità. Il cinema (neo)realista si incarica di rispettare l'ambiente che narra, di mescolarsi con i suoi materiali, deve fare di tutto per sembrare vero, e dunque spesso cerca di evitare l'importazione sul set di attori troppo impostati e famosi, e - al contrario - offre agli autoctoni il centro della loro stessa messa in scena, fin dai tempi di La terra trema. La paranza dei bambini non fa differenza, da questo punto di vista.
I protagonisti sono stati pescati tra 4000 volti di casting locale napoletano, Afragola, Forcella, Sanità, Rione Traiano e Quartieri Spagnoli.
Francesco Di Napoli, il protagonista, non si era nemmeno presentato all'incontro cui era stato invitato, pensando a uno scherzo, dopo che una sua foto aveva acceso la curiosità del regista e dei suoi collaboratori. I nove ragazzi che compongono la banda dei "paranzini", dunque, esprimono tutto il vitalismo e la verità necessarie. Si potrà obiettare fin che si vuole a questa pratica, ma funziona. Basta che da una parte - i registi del realismo - non si neghi che si tratta di una "retorica" ormai pluridecennale; e che i più critici non si oppongano per motivi ideologici.
Anche perché non tutti i non-attori sono uguali. E non tutti i registi sono in grado di dirigerli con cura. Nel caso di Francesco Di Napoli la riuscita è davvero sorprendente. Dovendo caricare su di sé tutto il peso del film e del racconto, il ragazzo (giovanissimo) incarna con un'adesione e una forza febbrili il personaggio di Nicola. In casi come questo, il lavoro con i volti e i corpi degli attori non protagonisti assume un'importanza maggiore rispetto al resto.
E probabilmente bene ha fatto Giovannesi a condurre Di Napoli al centro di tutti gli equilibri del racconto, dandogli persino il compito di bilanciare tutti gli altri pesi che non sempre sono perfettamente calibrati - in particolare una sceneggiatura che qua e là sembra oscurare a corrente alternata alcuni personaggi (la madre di Nicola, per esempio) o accelerare frettolosamente le svolte più "scritte" (la parte finale). Il resto è frutto dello straordinario universo-Gomorra - La serie, che non solo ha assunto in questi anni il ruolo di eccellenza seriale italiana ma ha senza darlo troppo a vedere costruito una factory all'americana per i nostri registi.