Titolo originale | i-Documentary of the Journalist |
Anno | 2019 |
Genere | Documentario |
Produzione | Giappone |
Durata | 113 minuti |
Regia di | Tatsuya Mori |
Attori | Isoko Mochizuki, Tatsuya Mori, Yoshihide Suga, Shiori Ito, Keiko Katagiri Hiroshi Sakuta. |
Tag | Da vedere 2019 |
MYmonetro | Valutazione: 3,50 Stelle, sulla base di 1 recensione. |
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Ultimo aggiornamento sabato 27 giugno 2020
Un'istantanea dello stato dei media in Giappone oggi tramite una coraggiosa giornalista.
CONSIGLIATO SÌ
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Isoko Mochizuki è una giornalista che scrive per il popolare quotidiano "Tokyo Shinbun", per cui segue la politica nazionale. Professionista appassionata, segue con costanza e fino in fondo alcune storie poco coperte dai grandi gruppi di comunicazione. Storie legate tutte in qualche modo a omissioni di controllo o a responsabilità della Nippon Kaigi, associazione ultranazionalista legata all'amministrazione del primo ministro conservatore Abe (in carica dal 2006 al 2007 e di nuovo, ininterrottamente, dal 2012 ad oggi, nel suo quarto mandato): un caso di inquinamento, il processo per lo stupro subito dalla giornalista tv Shiori Ito, la vendita a prezzo di favore di un'ingente proprietà demaniale, la falsificazione e alterazione di documenti, la costruzione di una base militare sull'isola di Miyako.
Il governo di Abe - che lavora per modificare la costituzione in senso autoritario, investire sul nucleare, rafforzare lo stato militare - ha un problema di trasparenza e democrazia alla fonte. I media mainstream, dal canto loro, sono indicati come estremamente compiacenti nei confronti dell'establishment, quando non palesemente filogovernativi.
Si tratta in primo luogo di accesso: mettendosi al seguito della reporter, il documentarista Tatsuya Mori scopre a proprie spese che dall'insediamento di Abe nessun giornalista è stato più autorizzato a filmare le conferenze stampa del portavoce presidenziale, il capo di gabinetto Yoshihide Suga, concertate a quanto pare dall'elitaria associazione Club della stampa.
Eppure le domande della giornalista e le risposte dell'irremovibile esponente politico costituiscono il fulcro del film (e al tempo stesso il suo mistero, dato il divieto di riprendere): in queste conferenze stampa quotidiane Isoko Mochizuki pone interrogativi diretti, legati alle sue inchieste sul campo. E immancabilmente le sue domande vengono o interrotte, o depotenziate, quando non eluse o respinte al mittente con toni dispotici.
Più che un ritratto femminile, strappato tra fugaci pranzi e momenti familiari, quotidiani percorsi solitari in taxi, tra manifestazioni di strada, assemblee civiche e palazzi di potere, in un unicum inseparabile di smarthpone, borsa e trolley, il racconto si dispiega come un saggio sulla deriva illiberale e corrotta di una società dal passato nobile e l'isolamento di una professione sempre più ostacolata. Anche se il regista sa cogliere la solitudine del personaggio, la sua instancabile e coriacea gentilezza, l'accento è sulla devozione nipponica alla causa del diritto all'informazione: I-Documentary of the journalist si impone in primo luogo come un ripasso di deontologia professionale: esercitare il diritto di cronaca, rispettare e proteggere le fonti, verificare i fatti, e soprattutto, come il film esalta all'ennesima potenza, mai accontentarsi della prima risposta.
Un documentario ibrido, zeppo di informazioni e rimandi interni, anche specialistici, alla realtà mediatica nazionale, che ha il suo punto di forza nel montaggio e attinge anche all'animazione, in un prefinale di scontro quasi epico tra la giornalista e il portavoce. Un grido d'allarme da un Paese che non interessa più molto nemmeno alla stampa straniera, come ricorda anche Pio D'Emilia di Sky Tg24, ex presidente dell'associazione dei corrispondenti esteri a Tokyo. Una nazione che adotta tecnologie di controllo poliziesco come l'identificazione dei manifestanti e che Reporter Sans Frontières colloca al posto più basso per libertà di stampa tra i Paesi del G7. Un appello anche a una presa di posizione critica, individuale, che contrasti i pericoli dell'omologazione di pensiero evocati da un finale che si rifà allo spettro del nazismo in Europa. Fuori concorso al Far East Film Festival 2020.